Noi credevamo (o della delusione)

Sono giunto ormai alle ultime pagine di Noi Credevamo, il bello e poco noto romanzo di Anna Banti su cui Mario Martone ha in parte basato il suo omonimo (e bel) film. E mi sto sempre più convincendo che in fondo il libro sia una sorta di parabola sulle pene (molte) e le gioie (molto poche) di chi vorrebbe cambiare il mondo e si ritrova, da reduce, a fare amari bilanci.

La storia – sotto forma di autobiografia – che “Noi Credevamo” racconta è quella di Domenico, reduce delle lotte democratiche contro il regime dei Borboni, incarcerato in condizioni spesso terribili per 12 anni, fino al crollo del Regno del Sud sotto i colpi dei Mille di Garibaldi.
Nel 1860 Domenico conosce immediatamente l’amarezza per l’annessione dell’Italia al Piemonte, con la sconfitta del movimento democratico e repubblicano. E la sconfitta è soprattutto quella del “noi”, di un collettivo, di un movimento di persone.

Mi pare chiaro che il libro di Banti non parla soltanto di quella storia, dei 150 anni dell’unità dello stato italiano (del Regno d’Italia) che in questi giorni provoca chissà perché scandali, se qualcuno non ci vede di che festeggiare. Se c’è una festa democratica e popolare, penso, dovrebbe essere quella del 2 giugno, quella della Costituzione (che non so se sia la più bella del mondo, ma è una Costituzione nata con la democrazia).
Ma di questo ho già parlato qui.

Per riportare il discorso al libro di Banti, fu scritto prima del ’68 e della rivolta giovanile che attraversò l’Europa (anche se c’erano stati già gli Usa), e poi degli anni 70. Ma la storia, sia italiana che internazionale, è piena di vicende del genere. Il risorgimento. Il biennio rosso, finito poi col fascismo. La delusione azionista del Secondo Dopoguerra. Ancora prima, la rivoluzione francese o la Repubblica napoletana del 1799. E ancora e ancora e ancora.

Insomma, le rivolte, le rivoluzioni, finiscono per provocare delusioni, più o meno accese (anche le rivoluzioni per modo di dire, come l’elezione del nero Barak Obama alla Casa Bianca). Almeno in una prima fase, quella che segue immediatamente gli eventi.
E’ quello il momento in cui il “noi” si affievolisce e si perde in tanti rivoli individuali, di gruppi e gruppetti, di contrapposizioni.
E’ quel momento in cui il prima che si pensava di aver sconfitto riemerge e lancia la sua rete sul dopo (mentre al contrario si dice, e forse si pensa, che niente sarà più come prima, o non si torna più indietro).
Il momento in cui spuntano facce mai viste prima, o forse son solo facce vecchie ma ben truccate, che diventano influenti. Il momento in cui pensi: “ma era tutto qui quello per cui abbiamo lottato?”.
Il momento in cui si registra, per forze di cose, la maggiore distanza tra quello che si progetta e quello che si realizza.

Penso sempre che un rivoluzionario – che la rivoluzione sia parlamentare, dei costumi, dei consumi o anche di piazza e violenta – dovrebbe sempre cercare di essere onesto con sé e con gli altri, non nascondere la delusione che verrà ma mettere in guardia chi lo segue e chi ne condivide le idee.
Perché non è la delusione, il pericolo. Ma l’idea che si possa non restare delusi.

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