Che fine ha fatto la fantascienza (in Italia)?

La fantascienza (alla quale, purtroppo, nessuno ancora ha dedicato l’attenzione che merita come veicolo di sentimenti e desideri di massa)“. Hannah Arendt, La Vita Activa, Bompiani.

Sono stufo di entrare in libreria, anche grandi negozi a più piani e magari con una sezione dedicata ai libri in lingua originale e, quando chiedo lumi sulla fantascienza, vedermi indicare pochi scaffali colmi di titoli su vampiri adolescenti, romanzi fantasy e, al massimo, qualche Asimov, Dick e talvolta Gibson. Che peraltro ho già letto e spesso riletto.

Che succede? E’ un problema soltanto italiano? E’ possibile sperare che una volta passata l’onda dei vampiri – e ve lo dice uno che si è divertito a leggere anni fa Ann Rice e più recentemente la serie di Twilight – si torni a distribuire science-fiction in quantità almeno modica, e non soltanto attingendo ai soliti classici?
Oppure si tratta di una vera condanna, come è stato per la quantità industriale di giali e noir usciti,  dominati da serial killer e poliziotti di sinistra delusi, di cui sembra che ancora non siamo riusciti a liberarci?

Urania resiste in edicola, e da qualche anno ha anche un blog, ma continua a pubblicare in gran parte romanzi stagionati, pur dando spazio anche ad autori italiani. Fanucci si è data soprattutto a horror e fantasy, l’ultima uscita nuova di fantascienza dal catalogo online risale a due anni fa (e se andate nella libreria Fanucci di Roma, poi, vi mettete a piangere, per la quantità di scimienze).

Certo, c’è Internet, ci sono le autoproduzioni, ci sono gli ebook, insomma ci sono spazi certamente più vasti di anche solo pochi anni fa per farsi leggere. Ma non so quanto poi attraverso questi canali possibili passi davvero la nuova – nel senso di scritta recentemente – fantascienza.

Ma soprattutto, interessa a qualcuno, la fantascienza, aldilà dei blockbuster al cinema (il 22 aprile per esempio esce Worldinvasion , c’è stato lo scorso Anno Avatar e io segnalo sempre che Wall-E era un gran bel film di fantascienza) o dei soliti classici, che non costano ormai niente di più della ristampa? Interessa cioè non solo l’intrattenimento – e non c’è niente di male –  ma la riflessione?

Uno dei limiti, fino agli 90, della letteratura italiana di genere, del noir, era stato quello di non utilizzare l’enorme “serbatoio narrativo” dato dalla storia contemporanea, dai “misteri”, dalla strategia della tensione, le associazioni segrete, Cosa nostra etc.  Grazie a un gruppo di autori giovani e combattivi quel limite è stato superato, e le ricostruzioni fiction di quella Italia (che non è un’Italia ompletamente diversa da questa…) ora non sono più una rarità.

Forse anche da questo incrocio tra noir e storia politica è nata anche la New Italian Epic (formula ultimamente meno utilizzata), che propone sempre una riflessione critica sul passato (che è in qualche modo anche sul presente).

Manca invece – e secondo me curiosamente – una riflessione sul futuro, che ovviamente è anche e soprattutto sul presente, come riassume splendidamente Hannah Arendt in quel brevissimo passaggio della Vita Activa (in cui definisce la fantascienza “non precisamente rispettabile”, ironizzando). Perché? Perché non è abbastanza cool, la science-fiction? Oppure perché c’è ancora l’idea della prevalenza della space opera? Non piace come forma narrativa?

Qui ho postato più interrogativi che altro, anche perché oltre a una forte voglia di leggere fantascienza (e mi sa che mi tocca mettermi a ordinare più libri in lingua inglese e francese: Oltralpe ho visto negli ultimi anni un maggiore interesse rispetto a quello nostro, e pure una certa produzione locale, che finora avevo però disegnato), non ho al momento risposte. Ma è benvenuto chi provi a darle.

2 pensieri riguardo “Che fine ha fatto la fantascienza (in Italia)?

  1. Concordo. Magari c’è un problema di mercato, ovvero gli italiani ne leggono poca e sempre meno ne viene stampata e distribuita.

    Per quella che è stata la mia parabola nel genere, se a casa trovavo Asimov, Dick, Lem e altri classici, la mia vita di lettore autonomo è coincisa con il cyberpunk – anche nella sua derivazione ‘steam’: long live the Industrial Revolution! – e con esso finita. Non ho più provato emozioni simili. Non mi sono sentito affatto attratto, tantomeno trascinato in una realtà alternativa e possibile. È venuto a mancare quello che chiamo l’«orizzonte». Il sentire di attraversare la frontiera. Di andare verso il futuro. Sarà perché, come si dice volgarmente e si diceva più sottilmente nell’era cyberpunk, «il futuro non è più quello di una volta». Le profezie dell’era cibernetica si sono avverate in larga parte e il mondo puzza come quello dei low-lifer gibsoniani.

    Mi sono via via accontentato delle ucronie, le quali – col passare degli anni – mi sono sembrate via via più spente e scontate. Turtledove ne è l’esempio lampante: genio esaurito, pubblica solo esercizi di stile e riscritture della storia ufficiale su matrici di pianeti Terra alternativi.
    Quanto al fantasy, alzo le mani. Sai che sono un tolkeniano di ferro. Ne continuo a comprare per automatismo, ma la nuova è solamente robetta poco ispirata. Per non dir peggio. Mi consolo con la heroic d’annata: Conan, Kane, cose così. Ma le manca come le mancava l’afflato cattolico, nel senso di universale, che sarebbe arrivato solamente con la Terra di Mezzo. È pur vero che non si può pretendere che nasca un Tolkien ogni generazione: lui fu una miscela di creatività e cultura individuali incredibile. Un matrimonio così felice da essere improbabile possa essere riprodotto. Come in Asimov, del resto.

    Forse, per scrivere di un futuro, bisogna saper leggere il presente. Un presente, il nostro, che è talmente sfaccettato da divenire quasi sferico. E sfuggente. La fortuna del cyberpunk fu l’univocità del presente di allora. Era chiaro dove si stava andando. Ora no. Né mi affascinerebbe leggere di futuri ‘eurabici’, in cui hi-tech e novelli medioevi convivono. Boh. Fatto sta che, come avrebbero detto gli ultimi mohicani, per me è tutto «no future».

  2. Ho pubblicato di recente un romanzo di fantascienza che ha lo stesso nome del mio nick.
    Trovo che hai ragione quando dici che manca la voglia di pensare al futuro, ma non è un tema solamente italiano (il vizio di noi italiani è di pensare che la nostra situazione sia sempre unica e diversa, mentre in realtà viviamo in maniera originale stati d’animo molto codivisi in occidente) ma occidentale.
    Faccio sempre questo paragone: quando Kennedy lanciò il programma lunare correva l’anno 1961. A Londra c’erano ancora le tessere di razionamento del pane, la guerra era finita da 15 anni (quindici anni fa Berlusconi litigava con Bossi…) e la questione razziale imperversava. Eppure, fu lanciato un programma colossale che in otto anni (otto) portò l’uomo sulla luna. Io vi chiedo: sarebbe oggi possibile, 50 anni dopo portare l’uomo sulla luna in otto anni?
    Ecco, il tema del mio romanzo è anche la risposta al tuo post: la fantascienza è meno amata perchè il Futuro un tempo dava speranza. Oggi fa paura. E’ rimosso.
    Così, almeno, la pensio io.
    Grazie dell’ospitata

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