Facendo forse un po’ di violenza a entrambi, si potrebbe dire che La città verticale di Osvaldo Piliego è il lato oscuro (o più oscuro?) e proletario di La Ferocia di Nicola Lagioia.
Entrambi ambientati in Puglia (che siamo abituati a considerare nuova frontiera culturale per una specie di Effetto Vendola, mi sa) raccontano malastorie. Ma i brutti, sporchi e disperati abbondano soprattutto nel romanzo di Piliego, dove non c’è riscatto per nessuno, mentre quello di Lagioia è popolato soprattutto di stronzi vincenti (e il libro non è privo di sociologismi, anche se mi è piaciuto, in fondo).
Il condominio i cui inquilini sono i protagonisti della Città Verticale non c’entra nulla con quello di James Ballard. Non si ammazzano tra loro, ma sono uniti e combattivi come una cellula tumorale. La Lecce di Piliego è una specie di Ciudad Juárez (sì, sto leggendo in questi giorni Il Cartello, il potente romanzo di Don Winslow) e la violenza che si manifesta è da macelleria messicana. Le tv sono sempre accese, sintonizzate su trasmissioni come Amici o Uomini e Donne (che hanno lo stesso ruolo delle sit-com di Fahrenheit 451, a pensarci bene). E la morte, quando arriva, è una liberazione sulle note di una canzone di Albano e Romina (Ci Sarà, 1984).
Il romanzo ha una scrittura densa e ricca, poetica, soprattutto all’inizio. Non aspettatevi colpi di scena o redenzioni, la storia si trascina fino alla fine come un torrente. E forse questo è uno dei suoi limiti (lo dico avendo scritto io stesso un romanzo linearissimo). L’altro è in un certo moralismo “no future” che affiora ogni tanto tra le pagine. Ma il libro è da leggere (e grazie a Nino G. D’Attis per avermelo fatto scoprire). Peccato che non si trovi in versione ebook: quello che propone Amazon con lo stesso titolo è infatti un’altra storia.