Per amore e per politica

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La frase di Debora Serracchiani “alla politica ho sacrificato il mio matrimonio” è oggi un po’ dappertutto, sui media. È una di quelle dichiarazioni – ma forse è solo un titolo inventato da noi giornalisti – che piacciono tanto, perché mescolano generi letterari diversi, in questo caso la politica e l’intimità, il rosa. Il politico che si confessa, che è un po’ come noi tutti, tolta la giacca, o il tailleur.

[Per inciso, la presidente del Friuli, intrevistata da Vanity Fair, è la stessa che qualche giorno fa ha avuto un’infelice uscita sullo stupro commesso da un rifugiato – che poi forse stupro non era, si è saputo poi]

Ovvio che la frase abbia generato anche numerosi commenti antipatici. In fondo non è un’epoca felice per la reputazione della maggior parte dei politici, e Serracchiani è solitamente anche un tipo diretto e aggressivo.

Io invece preferisco soffermarmi sulla questione del sacrificio. Perché, con tutta la passione e il rispetto che continuo a nutrire per la politica, non credo che un politico sacrifichi la propria vita per il bene comune (no, non credo affatto che la politica sia solo un magna magna e che generalmente i politici stiano lì per arricchirsi).

Voglio dire: fare politica è una scelta, prima di tutto. Non si fa politica se non piace fare politica. Anche se si tratta di una cosa simile alla chiamata vocazionale, anche se si può arrivare a odiare il proprio ruolo, c’è comunque un piacere personale, un interesse personale (no, lo ripeto, non nel senso di arricchimento) che resta il fondamento della propria scelta.
Poi, ovviamente, il politico deve essere anche portatore di interessi e ideali collettivi. Il politico migliore riesce a coniugare tali spinte, a rappresentare gli interessi e insieme a manifestare le proprie idee, la propria visione del mondo. C’è il piacere della relazione, il piacere della lotta, c’è il piacere del potere. Fa parte del gioco. Siamo persone.

Per principio, diffido di coloro che si dicono prestati alla politica, perché di solito parlano della politica come fosse un mondo a cui non appartengono, perché hanno un mestiere, una professione, una propria casa a cui tornare.  Nessuno però ha chiesto loro di fare politica.
E nessuno lo ha chiesto a quanti definiscono la politica un servizio (“per me la politica è un servizio alla comunità”) e si definiscono umili servitori.

Quest’idea della sacralità della politica fa esattamente da contraltare a quella che la politica faccia schifo (poi bisognerà dire anche dell’idea che hanno della politica coloro che non la conoscono, e che considerano il suo ruolo di mediazione una cosa sporca, aspettandosi dai leader politici un comportamento migliore del loro nella vita quotidiana, in cui siamo tutti abituati a fare mediazioni, perché viviamo una vita di relazioni).

Il risultato della concezione politica=schifo porta anche all’ipocrisia di non chiamare politici quelli che si comportano da e fanno i politici. Sono cittadini. O professionisti prestati alla politica, appunto.

Quindi, per tornare alla questione. Debora Serracchiani, come tutti, ha fatto delle scelte (anche non fare scelte è scegliere, come è noto). Come tanti altri, ha vissuto una storia d’amore finita male (e mi dispiace, sinceramente). Però, invece di prendere atto che è la vita, ha preferito scaricare sulla politica la questione.

Come se qualcuno l’avesse costretta a fare politica, appunto.

ps: vale la pena leggere (e nel mio caso rileggere) Felicità pubblica e felicità privata, di Albert O. Hirschman, che parla anche di questo

 

 

Un pensiero riguardo “Per amore e per politica

  1. Enzo Riccobono 30 Maggio 2017 — 11:32

    interessante riflessione Max, aggiungo che sono d’accordo con te, non si fa politica per sacrificio o come servizio, o meglio non solo, la si fa perché ci piace, e aggiungo che diffido enormemente dei “prestati” alla politica, che tra l’altro, in genere, raggiungono dei pessimi risultati

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