Tempo di morire

C’è una frase di Blade Runner che è talmente famosa da venire a noia, almeno a me: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser”.
Quella frase poi continua così: “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire».

Secondo la vulgata giornalistico-specializzata, la frase originale del copione era diversa, meno d’effetto, ma Rutger Hauer (che interpreta Roy Batty, il leader degli androidi) decise di modificarla seduta stante, di suo pugno, e l’interpretò così.

È una frase epica, d’accordo. Ma se la leggete per intero, il punto non sta nelle cazzate sui bastioni d’Orione, sui raggi B (che sono?) o su Tannhäuser (dov’è?). No. Il punto sta nel fatto che nonostante tutte le gran cose che hai fatto, tu muori, inevitabilmente, e quello che hai vissuto scompare con te. Che è una grande dichiarazione di umanità da parte di un essere sintetico, presuntamente non umano. Ma che, esattamente come noi, non ha la data di scadenza, ma solo la certezza che morirà.

Per inciso: nel libro da cui è tratto il film (che si intitola Do Androids Dream Of Electric Sheep?, è stato scritto da Philip K. Dick ed è uscito nel ‘68) Roy Batty non muore all’improvviso, viene ammazzato da Rick Deckard, e non dice nulla del genere (e qui c’è un bell’articolo di un paio di anni fa, in inglese, che racconta le molte differenze tra libro e film). 

Sempre nel libro, gli umani sintetici sembrano più veri di quelli generati da un ventre di donna (o da una provetta, ma sempre comunque da materiale genetico “umano”), il che pone una questione grossa come un macigno, a cui non esiste, credo, risposta: che cosa è veramente umano?

Quel “è tempo di morire” (time to die)  rimanda apparentemente all’Ecclesiaste (“un tempo per nascere e un tempo per morire”) che questiona la vanità umana e cerca un senso nella vita.

Oggi, che per ragioni personali mi trovo più spesso del solito a riflettere su questo, sulla morte e sul suo senso, non trovo conforto nel confidare in Dio e obbedire ai suoi comandamenti, come vorrebbe la conclusione dello stesso Ecclesiaste (che mi è sempre sembrata appiccicata da qualcuno alla bell’e meglio). Da agnostico e libertario, preferisco che l’interrogativo resti aperto, sapendo di non sapere, e apprezzo comunque l’idea di fare del bene. Gratuitamente, perché invece nell’Ecclesiaste (sempre nella sua conclusione) fare del bene è associato al fatto che “Dio un giorno ti chiederà conto”.

E chissà se è un’azione gratuita anche quella che compie Roy Batty quando, sentendo la morte giungere, decide di non uccidere ma anzi salvare Deckard…

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