Intervista a un uomo che fu pericoloso /1

In tempi di discussione su Sofri (a proposito, oggi Ciampi ha ribadito che non può firmare la grazie se nessuno gli sottopone un testo), Fioravanti e Mambro, vi propongo una lunga intervista del 1999, mai pubblicata prima, a Cesare Battisti, scrittore, ex militante della lotta armata, da anni esule in Francia.
Battisti è nato nel 1954 a Latina. Negli anni 70 ha fatto parte dei Proletari armati per il comunismo. Nel 1981 è evaso dal carcere in cui era detenuto, durante un assalto dei suoi compagni. Condannato all’ergastolo, risiede oggi a Parigi, dopo aver vissuto in Messico. Il suo ultimo libro (al 50% autobiografico, come dice lui stesso), s’intitola Le Cargo Sentimental.
Su di lui il regista francese Pierre-André Sauvageot ha appena girato un film-documentario, Cesare Battisti, Résistances che sarà presentato per la prima volta (in Francia) il 30 settembre.
L’intervista è lunga e spazia su molti temi, dalla letteratura alla lotta armata all’amnistia, dunque la dividerò in più parti.

Il suo primo romanzo, “Travestito da uomo”, è uscito in Italia nel ‘92. Qual è la storia di questo libro?
L’ho cominciato in Messico, e l’ho scritto in spagnolo. L’ho finito in prigione in Francia, dove sono rimasto cinque mesi, in attesa del processo per l’estradizione. Poi, attraverso un amico il manoscritto è arrivato a Bernardi (l’editore della Granata Press di Torino), che ha accettato di pubblicarlo. Alla Gallimard (la casa editrice che ha pubblicato il libro in Francia), invece, è arrivato per caso. A inviarlo è stato un altro rifugiato che ha letto il manoscritto e mi ha detto: Questo andrebbe bene per la Sèrie Noire. Figurati, gli ho risposto. Poi, invece, mi è arrivata una lettera della Gallimard…

In Italia aveva mai scritto niente?
Le solite cose, qualche racconto. Da ragazzino avevo questa cosa in testa, mi sarebbe piaciuto scrivere. Però poi con la politica, i casini e tutto il resto mi ero ridotto a scrivere qualche stronzatina politica, cose spesso ignobili. A scrivere sul serio, ho cominciato in Messico, scrivevo articoli e recensioni su avvenimenti culturali. Pian piano ho cominciato a fare dei reportage, e nei reportage ci sono un po’ tutti i generi letterari… Per me scrivere era già una malattia, perché in Messico vivevo di questo, di inchieste, di articoli. Poi sono arrivato qui, e non potevo più scrivere per i giornali perché non conoscevo abbastanza il francese.

In Messico ero in uno stato di semiclandestinità, scrivevo sotto pseudonimo, quello di un mio compagno di classe alle elementari, ma ero protetto dal governo sandinista del Nicaragua. Se fosse successo qualcosa, se l’Italia avesse presentato la domanda di estradizione, dal Messico mi avrebbero mandato in Nicaragua. Poi invece il governo sandinista è caduto, e in Francia stava per cadere il governo socialista. Allora, mi sono detto che bisognava tornare in Europa, e subito. Infine, ero anche stufo, volevo riprendere la mia vera identità.

Dei suoi libri, lei dice che non sono esattamente dei noir. Che significa?
Quando scrivo qualcosa non penso a un romanzo noir, d’avventura o che altro. Scrivo e basta. E poi, qui in Francia, dagli editori ai critici, tutti dicono che non sono uno scrittore noir, semmai al limite, e che qualche volta si vede che faccio uno sforzo per entrare nell’intrigo del noir. Secondo alcuni, ciò toglierebbe qualità ai romanzi.

Per lei dunque il noir è quasi un pretesto…
Forse sì, a un certo punto forzo un po’ l’intrigo.

Invece nel suo ultimo libro (ndr: all’epoca), “L’ultimo sparo”, l’impressione è che lo stile sia molto noir, e anche molto classico.
Credo proprio di sì, perché lì il noir mi serviva come pretesto psicologico. Ero un pò stufo di leggere le solite cose sugli anni della lotta armata , piene di retorica, di pippotti ideologici. A me, invece, serviva prendere le distanze. E lo stile della narrativa nera era proprio quello che ci voleva, anche per dargli ritmo. Volevo scrivere un romanzo, parlare al lettore qualunque, non ai soliti. Volevo solo dare la possibilità a chiunque di leggere una specie di resoconto di quegli anni lì, senza suggerimenti.

Quanto veramente di autobiografico c’è nel libro? Il protagonista è una specie di piccolo delinquente politicizzato…
Diciamo che il protagonista è uno che è stato allevato già nella politica del Pci, che ne aveva piene le palle, che si era tirato fuori e che si era messo a fare bordelli. Poi, per caso, si ritrova dentro i gruppi estremistici e la lotta armata.

In realtà, però, nella sua vera storia, tutto ciò non è accaduto esattamente per caso…
No. Nel libro si parla di un incontro casuale in prigione con un tizio, e per quanto mi riguarda c’è del vero. Ma il mio ingresso nella lotta armata non è accaduto per caso, no.

Nel libro si parla anche di una catenina con una falce e martello che il protagonista porta al collo da quando era bambino.
Chissà dov’è finita quella catenina! Mio fratello era segretario di federazione del Pci a Latina, e quello era stato un regalo di un suo amico, quando avevo dodici o tredici anni. A quell’epoca mi portavano già alle manifestazioni, ai presìdi davanti alle fabbriche.

In una città tradizionalmente di destra come Latina?
A Latina la presenza della destra, e dell’estrema destra, è sempre stata forte. Proprio per questo il Pci era abbastanza attivo, per reazione. Certo, non avrebbero mai permesso che uno andasse in piazza a spaccare la testa ai fascisti, come ho fatto io. Per mio fratello, ad esempio, ero un delinquente, mica un compagno.

Nel noir, di solito ci sono i buoni e i cattivi, anche se la linea di confine tra il bene e il male può essere molto labile. I suoi personaggi dove si situano? Lei in un poliziesco classico sarebbe stato un cattivo, il terrorista cattivo…
Quello che io cerco sempre di dimostrare, anche ne ‘L’ultimo sparo’, è che i buoni e i cattivi non esistono, e che sono le circostanze che li creano. Ognuno reagisce in un certo modo secondo le circostanze. Nei miei romanzi il protagonista è uno capace di tutto. Compie atti generosissimi, però è cinico e può essere anche molto cattivo. I miei generalmente sono personaggi che negano di avere una morale, però poi alla fine ce l’hanno, anche se non la conoscono fino in fondo. Ecco, lì c’è il mio vissuto: chi meglio di me può sapere che si può fare davvero tutto e il contrario di tutto secondo i momenti, secondo la situazione. E poi, a me non piace questa storia dell’eroe, con ogni suo gesto teso comunque verso il bene. Sono cazzate. Di un libro così, leggerei solo venti pagine. Dopo Hammet e Chandler queste cose non tengono più. Prendiamo per esempio un mio amico Jean-Claude Izzo, con l’eroe dei suoi libri, Montale. I libri di Izzo sono scritti molto bene, lui è davvero il Montalban francese, ma a me raccontare storie così non interessa. Chiaramente questo limita un po’ anche il mio pubblico, perché con i miei protagonisti è difficile identificarsi, proprio perché non vogliamo riconoscere in noi stessi certe debolezze.

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