Nel 1968 pare si dicesse: non ti fidare di chi ha più di 30 anni. Nel 1977 l’età di quelli di cui diffidare era scesa a 20 anni. Nel 2007 sembra essere risalita, e di parecchio, ai 35 anni. O anche di più: “Non ti fidare di chi ha un mese più di me, perché io sono giovane”, suggeriscono i sacerdoti supremi del giovanilismo.
Qualcuno azzarda che Roma, la Città Eterna, sia in realtà un città in declino da quasi 2.000 anni. Un declino placido e bonario, ovviamente, nulla di drammatico. Forse, con la sua capitale, anche l’Italia è in declino, almeno di nascite. Logico che invecchi, e che sia un paese gerontocratico, in cui sono i vecchi ad avere il potere, e i soldi.
Logico anche che il nostro sia un paese un paese tradizionalista, culturalmente incline al conservatorismo, ripiegato sul passato – anche perché i turisti portano soldi per vedere le sue adorabili antichità – più che curioso del futuro. Se fosse così ansioso o disperato di conquistarsi il futuro, invece di temerlo, appunto, forse farebbe più figli.
Fare più figli. Avere fede e soprattutto speranza. Paradossalmente, quel che vorrebbe la Chiesa cattolica, ingombrante presenza materiale e spirituale da quasi due millenni, organizzazione supergerarchica composta nelle sue alte sfere da vecchi, che esclude le donne e anche gli uomini che vogliono avere una famiglia – o li costringe nella clandestinità – che celebra come una apertura culturale l’aver riammesso la messa in latino. E che nella sua ossessione ha combattuto contro la fecondazione assistita con il risultato, dicono i dati, di far nascere meno, e non più, bambini.
Un best seller per adolescenti in queste settimane in libreria, “New Moon” di Stephenie Meyer – saga di giovani vampiri e licantropi ambientato degli Usa- racconta in un passaggio di qualche pagina l’Italia come il paese dei vampiri più vecchi del mondo, all’apparenza giovanili, aristocratici e cerimoniosi nei modi, ma al tempo stesso spietati e preoccupati solo di conservati il loro potere. Un quadretto che si presta perfettamente a questa “Roma città eterna”, e che per restare immortale deve succhiare il sangue a qualcuno.
Un paese che a leggere i giornali si angoscia per i pochi bimbi che vi nascono – e che pensa di risolvere le cose magari col bonus-bebè: ma lo faceva già il fascismo! – e a sentire le coppie che conosci si inquieta molto di più per la mancanza di strutture, sostegni e reddito – non si accorge poi neanche che i bambini ci sono, eccome. Sono i nuovi italiani, i figli degli immigrati. Coloro che, molto probabilmente, cresceranno qui, tra di noi, nei nostri paesi, nelle nostre città, soprattutto nelle nostre periferie, non torneranno da dove sono venuti i loro genitori. Coloro che temeremo, come temiamo i loro padri e zii. Coloro che finiranno magari per odiare, e non temere, noi. Perché cercheremo di non fare loro spazio, a loro e alla loro intraprendenza di nuova generazione.
I giovani immigrati in Italia, i nuovi italiani, non porranno solo una “questione generazionale”, no. Porteranno anche un sacco di altre cose, e contribuiranno allo sviluppo dell’Italia. Non solo al Pil e alle riserve dell’Inps, intendo, ma anche alla cultura italiana, facendola aprire di più al mondo, perché sono i figli di diverse culture, di diverse lingue, di diverse religioni, di diversi stili di vita. Se riusciranno ad avere spazio, sarà una conquista per tutta la comunità.
Spazio. I cultori del “giovanilismo politico” chiedono spazio per i giovani. A chi lo chiedono? A quegli stessi “vecchi poteri” che, per non si sa quale misteriosa ragione, dovrebbero rispondere in coro: “Certo, accomodatevi pure!”. Gli unici due strumenti per favorire dall’alto l’ingresso dei giovani nei processi decisionali sono la cooptazione – si viene scelti dal potente, insomma- e le quote. Già. Quelle quote che faticano a imporsi già per le donne, che pure, mettendoci decenni ed essendo ancora oggi discriminate, pesano percentualmente nel mondo del lavoro produttivo, oltre a essere quelle che si sobbarcano in grandissima parte il lavoro riproduttivo: cura dei bambini, della casa, spesa etc.
Oppure si può invocare lo “scontro generazionale”. Quello del 1968 – che era mooolto più politico, perché si saldava alla necessità di ricambio sociale e nelle istituzioni – ha prodotto, secondo la vulgata, generazioni di insegnanti incapaci, lassismo e opportunisti politici che poi hanno fatto carriera nelle istituzioni che contestavano. Quello del 1977 sembra sia finito tra arresti e morti per droga e Aids. Quello dei “ragazzi dell’85″ ha avuto più spazio sui giornali che altrove, come quello successivo della “Pantera”. Che pure poneva l’accento proprio sulla invisibilità dei giovani.
Il conflitto, anche quello generazionale, è comunque una possibilità e una scelta. Se però, per mancanza di sbocchi, o di capacità di direzione, resta solo un’espressione violenta, come il lancio di sassi dal cavalcavia, i disordini allo stadio o, in forma suicida, il drink and drive del sabato sera, allora esso non diventa solo controproducente, ma addirittura funzionale al “sistema”.
Ecco. Ma ai “giovani” serve visibilità politica, come sostengono i loro alfieri interessati (persone under-40 o attorno ai 40 anni, età che nei 60 era sufficiente a farne maturi membri della società, e che sono già professionisti e intellettuali di qualche notorietà), o serve un vero e proprio spazio di vita?
Non bisogna citare i dati dell’Istat o degli istituti di ricerca, ma basta conoscere un po’ di persone da media statistica che hanno tra i 20 e i 30 anni per saperlo. Per sapere cioè che ci sono problemi di (mancanza di) lavoro, casa, reddito.
Il dibattito sulle pensioni, per esempio, è interessante, nella rituale opposizione di interessi tra “anziani garantiti” e “giovani senza futuro”.
Ma se aumentare l’età pensionabile è logico in una società dove si vive più a lungo – anche se mantenersi attivi non significa per forza lavorare più anni – ed è comprensibile l’esigenza di non fare collassare il sistema pensionistico, finora nessuno ha dimostrato che questa soluzione aumenti i posti di lavoro per i giovani.
L’idea che rappresentanti politici dei “giovani” sappiano attuare le condizioni per risolvere, o almeno per cominciare a farlo, questi problemi, è suggestiva. Ma è altrettanto fondata? Chissà.
Se i “giovani” conducono le stesse politiche dei “vecchi”, per esempio, se ne può apprezzare magari la freschezza, o lo stile, ma non necessariamente i contenuti.
E’ come per il dibattito su Internet. La Rete è senz’altro un grande strumento di comunicazione, intrattenimento e, soprattutto di produzione di ricchezza. Ma è in sé uno strumento democratico? E’ in sé uno strumento di avanzamento civile e sociale? Forse. Ma è anche lo strumento che consente ai militanti jihadisti di fare proselitismo internazionale, o ai pedofili di scambiarsi facilmente materiale.
Ecco, Non dirmi che sei giovane. Dimmi che vuoi fare da grande.