Control

Quando Ian Curtis è morto avevo 15 anni e non avevo ancora mai ascoltato i Joy Division. Quando li ho scoperti, erano già diventati i New Order, un gruppo a cui mi è impossibile non essere affezionato (”Thieves Like Us” mi ricorda l’esame di maturità nel 1984).
L’effetto che mi ha fatto la visione di “Control”, sabato sera – da solo al cinema nell’unica sala di Roma che ancora lo programma – è stato quello di un salto nel passato. Non negli anni 70 in bianco e nero, come la pellicola, ma nei miei ricordi di adolescente, l’adolescente che peraltro giace dentro di me, non se n’è mai veramente andato.
Penso che la percezione del confine labile che esiste tra le infinità possibilità della vita e il senso di inutilità di tutto che provoca la scoperta dell’ineludibilità della morte risalga ad allora.
Come anche la scoperta cosciente della sofferenza per amore e il rimpianto anticipato per il momento, che sai che arriverà, in cui quella pena acuta cederà il passo a un sensazione più blanda, a un ricordo offuscato.
Perché se soffri, se ti laceri per qualcuno che non ti vuole più, almeno sai che in quel momento stai sentendo, percepisci l’intensità, la forza. E’ quando si stempera il dolore che se ne è andato anche il sentimento.
Per me è arrivata invece un bel po’ più tardi l’esperienza del dolore per aver inflitto un dolore all’altro, alla persona che amavi, mentre insegui una storia che sai non ti porterà da nessuna parte, perché è più la sofferenza che provi che la gioia. Anche se la passione ti tiene legato come la preda di un ragno. Che desideri, oltretutto, essere punta.
Non credo, invece, di aver mai provato davvero il sentimento che non c’è altra via possibile se non la morte. Penso di appartenere piuttosto a quella vasta schiera di persone che lasciandosi andare alla disperazione continuano a sperare che qualcuno, qualcosa venga e li porti via, li salvi.
Un tempo consideravo la scarsa serietà che riconoscevo in me stesso, valutando l’ipotesi di togliermi la vita – valutazione che a un certo momento credo facciano tutti gli adolescenti e non soltanto loro – una debolezza.
Col tempo ho imparato a infliggermi a varie punizioni non dichiarate, tutte mentali. Poi, per vivere meglio, ho dovuto imparare a riconoscerle, quelle punizioni. E a cominciare a farne a meno.
Oggi, quando penso a morire – e ci penso spessissimo, se esiste un ufficio delle statistiche di questo genere di cose – penso che in fondo sarebbe come scivolare, non cadere.
Non ho paura di morire. Semmai ho paura di fare del male ai miei figli, morendo.

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