Continuo a vedere i messaggi, su Facebook, di gente che invoca rivolte à la tunisina, egiziana o albanese per l’Italia del Bunga Bunga. E ogni tanto questo genere di suggestione affiora anche in domande di giornalisti a questo o quel politico, in comunicati di esponenti di partiti di opposizione.
D’istinto, questa gente qui – tra cui anche alcuni amici – la manderei di filato in Tunisia o nel Maghreb. O anche in Albania. Perché nel pressapochismo che ci unisce tutti, di tutto quello che succede l’unica cosa sembriamo afferrare è la parola “rivolta”.
Che la Tunisia sia un paese che campa solo quasi di turismo occidentale, per esempio, e che ha avuto (ha?) un regime dittatoriale in cui era consentito soltanto fare acquisti (fino a indebitarsi e finire in carcere, nel caso: me lo raccontava anni fa un regista tunisino emigrato in Belgio) ma non discutere o criticare, sembra un dettaglio.
Che discutere sul web di libertà, in Tunisia, equivalesse a diventare nemico del regime (socialista, ufficialmente), e vedersi aprire la porta del carcere, magari perché tacciati di integralismo islamico, anche quello sembra un dettaglio (lo raccontavano i reportage clandestini di Tunisie Reveille Toi). Eppure il “nostro amico Ben Ali”, come titolava anni fa un libro uscito in Francia, era sostenuto senza problemi sia a Parigi che a Roma. E nessuno è sembrato mai preoccuparsene. In fondo, la Tunisia è Monastir, e l’Egitto Sharm El Sheik.
In questo affannoso tifare rivolta, è tutto uguale, tutto confuso, e finisce tutto in merda o, peggio, in niente.
Pensare che l’Italia sia come la Tunisia, l’Egitto o l’Albania (che fino al 1989 era un bunker disastrato e poverissimo, e dove politica e mafia convivono ancora oggi, tra una pistolettata e l’altra, e la povertà resta comunque endemica) non solo offende tunisini, egiziani e albanesi (e in Albania si gioca una partita diversa: non è che i socialisti siano questi stinchi di santo), le cui condizioni di vita non sono manco lontanamente simili alle nostre; ma mette a nudo la nostra ignoranza, insofferenza, ipocrisia.
In queste vivaci descrizioni dell’Italia come una specie di dittatura machista, sfugge sempre il particolare che qui si vota e si elegge un governo. Cosa che per larga parte del mondo non è proprio un particolare trascurabile, e porta gente a morire, a finire in galera, a subite torture e umiliazioni.
Ci sfugge che il nostro livello di vita è lontanissimo da quello di questi paesi, Con cui certo condividiamo Facebook e magari Twitter. E che per loro l’Italia del Bunga Bunga sarebbe (è?) il paradiso.
E poi, quanti dei tifosi di queste rivolte sarebbe disposta ad andare per strada a rischiare la vita, non a sfilare tranquillamente per arrivare davanti a palchi costosi su cui si alternano band e cantanti molto molto indignati, dopo il discorso acceso del leader dell’opposizione di turno che spiega che Berlusconi ha tradito la Costituzione, deve andare a casa, è il cancro dell’Italia e però, il giorno dopo, stanno sempre lì, a discettare su Repubblica Tv, in Transatlantico o sui giornali?
Il paese di Bunga Bunga e dei quararaquà?
perfettamente d’accordo, e dove sono finiti i rivoltosi di natale anti gelmini? panettone pesante?