Quello che non mi è piaciuto di “Non voglio il silenzio”

Non ho mai letto nulla né di Patrick Fogli, che conosco per sentito dire e credo abbia avuto una storia con una che conosco…, né di Ferruccio Pinotti. Ho comprato in libreria “Non voglio il silenzio” perché presentato come “il romanzo delle stragi”, anche se in realtà per “stragi” qui si intendono quelle considerate “di mafia” dei primi anni 90, col passaggio fatidico dalla Prima alla seconda Repubblica. Quindi dimenticate piazza Fontana, Brescia, etc.

Dunque, una lettura senza prevenzioni, la mia, e anche abbastanza rapida, considerato che parliamo di un romanzo voluminoso (a differenza di quanto ha scritto poco tempo fa Nick Hornby io, che ovviamente non sono un cazzo, amo i romanzoni belli lunghi).

La prima critica è quella alla scrittura, un po’ piatta, zeppa di dialoghi, col rischio di perdersi tra i vari nomi e riferimenti (ma forse è un porblema mio di attenzione).  I caratteri poco definiti dei personaggi forse sono una scelta per dare più corpo alla storia, ma resta il fatto che il romanzo è popolato di figure poco approfondite.

Il secondo livello di critica è più, come dire, sostanziale. Se l’idea è quella di ricostruire “la verità” storica – quella processuale è un altro paio di maniche – degli omicidi di Falcone e Borsellino e della trattativa tra Cosa Nostra e Stato utilizzando la forma romanzo, trovo imbarazzante (o imbarazzata), poco comprensibile, la reticenza poi sui nomi “veri”, sui mandanti “veri”, sulle società “vere” coinvolte.

Quello che il romanzo vuole dimostrare – di solito i romanzi raccontano, ma questo vuole dimostrare – è che nel passaggio tra Tangentopoli e il sistema politico nato dopo il 1993 la Mafia e lo Stato o il Potere tout court hanno fatto di tutto per proteggere l’economia e soprattutto la finanza illegale dall’assalto dei magistrati, perché l’economia illegale e quella legale in sostanza si sorreggono a vicenda, essendo straordinariamente intrecciate.

Non illudetevi però che il libro parli di Silvio Berlusconi, per tradurre in soldoni la questione. Perché la ricostruzione che Fogli e Pinotti fanno di questa Italia parallela – che esiste, chissà, in un’altra dimensione – è che le elezioni siano state vinte ripetutamente da un banchiere divenuto popolarissimo perché ha avuto il coraggio di denunciare la corruzione,  e che si pone come crociato morale, ma che in realtà è una creatura nata in laboratorio (esagero), progettata dagli alchimisti della mafia-stato (stato mafioso, mafia statale, quello che volete).
Insomma, una specie di eroe alla Di Pietro ma sotto sotto mafioso e piduista.

Non intendo mettere in discussione la tesi perché non conosco a sufficienza – la conosco al massimo da lettore di giornali – la vicenda storica. Però, mi sarei aspettato un po’ di coraggio letterario.

Magari è difficile, in Italia e parlando di un momento storico così vicino a noi,  fare quel che fece James Ellroy con i Kennedy. Fare i nomi è difficile, espone a rischi legali e non solo, d’accordo. Però, se vuoi dire che l’attuale maggioranza politica è in realtà un prodotto della connessione politica-mafia, non ci girare intorno. Perchè se dici che dietro la morte di Falcone e Borsellino e le bombe dei primi anni 90, stragi vere accadute in un’Italia vera, c’è il patto politico-mafioso per mantenere la stabilità economico-finanziaria, non è poi influente chi abbia ereditato il governo del Paese dopo, credo.

Per questo fa uno strano effetto, nel romanzo, una ricostruzione del dopo-92, cioè del nostro presente, cioè che racconta un’Italia totalmente diversa, uno scenario in cui ha vinto un indefinito partito giustizialista…

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