Storia del mio breve orecchino

La cicatrice è pressoché invisibile ma c’è, sul lobo. E’ il segno dell’orecchino che portai per tre-quattro mesi, nel 1996.

L’orecchino è stato a lungo anche un gioiello maschile, e non d’uso quasi esclusivamente femminile, ma vallo a spiegare ai tuoi genitori, cresciuti in borgata, sì, ma convinti che certe cose siano appunto da borgatari e che ti possano marcare in negativo.

Quindi, adolescente, come tanti, anch’io ho ceduto al senso di colpa e alla paura della disapprovazione parentale (oltreché di quella di insegnanti, vicini e conoscenti) . Ho fatto male, a ripensarci, perché ho represso un naturale senso di ribellione, che magari si esprimesse soltanto con la voglia di mettere un orecchino, farsi un piercing o un tatuaggio .

Dunque, la decisione a 31 anni suonati di farmi bucare il lobo e di regalarmi un orecchino può essere giustamente letta come un tardivo atto di ribellione, un evento post-adolescenziale (faccio parte di quelli ad adolescenza ritardata).

Mi feci accompagnare da una collega in una bottega dietro la redazione del giornale in cui lavoravo, L’Unità. Fu rapido e indolore. Per farmi coraggio, da tempo mi ero detto che mi sarei fatto il buco solo se avessi trovato un certo tipo di orecchino. Non il solito brillantino, il solito anellino, ma un teschio che poggiava su due tibie incrociate. In altre parole, il simbolo classico dei pirati. Che avevo trovato, un paio di anni prima, in un mercatino in Australia (dopo aver rinunciato all’idea di farmi fare un tatuaggio simil-maori, un tribale in un’epoca in cui nessuno ancora li aveva, terrorizzato dall’apparente scarsa igiene delle botteghe di Sydney).

Il teschietto è un classico della simbologia pirata, dicevo. Ma in questo caso io c’ero arrivato attraverso la mediazione di un altro riferimento letterario, “Fanteria dello Spazio” di Robert Heinlein, un classico della fantascienza.

Insomma, feci il foro, misi per un po’ all’orecchio il solito brillantino di acciaio chirurgico, poi passai al teschietto. Ne ero piuttosto fiero. Ma non durò poi molto. A quel tempo lavoravo in cronaca, e facevo il cronista di nera. Che era una specie di battesimo del fuoco per neoassunti.

Bella, la cronaca nera. A ripensarci, una delle cose più interessanti che ho fatto. Comprese le alzatacce, a volte, per andare a vedere un bel morto ammazzato in periferia.

Comunque, una delle cose che alla fine mi convinse a togliere l’orecchino – ma ormai avevo già consumato il mio atto di ribellione estetico – fu il discorso di un collega più anziano e navigato con cui mi incontravo spesso per lavoro, sui luoghi dei fattacci o a San Vitale (la Questura di Roma).

Avrete fatto caso che molti poliziotti, quelli in borghese, portano l’orecchino (e sembrano dei veri coatti: spesso lo sono sul serio, e i veri coatti portano anche l’orecchino). Be’, una volta il collega mi disse più o meno: quando vieni Questura, è meglio se te lo levi, l’orecchino. Perché?, risposi, In fondo ce l’hanno un sacco di poliziotti, l’orecchino. Sì, è vero, ma tu non sei un poliziotto, e loro lo sanno. Meglio se te lo togli.

Provai a togliere il mio teschietto, rimettendolo quando uscivo da San Vitale o dai commissariati. Ma durò poco. In effetti, la mia luna di miele con l’orecchino (di cui conservo da qualche parte una foto: io e un altro paio di colleghi fotografati con l’equipaggio di una motovedetta della Finanza, e il mio lobo agghindato ben in vista) era finita.

Inutile dire che levandolo non sono diventato particolarmente più adulto. E ogni tanto mi viene voglia di rimetterlo, quel teschio.

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