Perché difendo Aldo Giannuli

 

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In questo fine settimana ho visto additare al pubblico ludibrio Aldo Giannuli, un docente universitario e intellettuale vicino al M5s, per aver scritto che il costituzionalista Gustavo Zagrebelksy ha toppato il confronto con Matteo Renzi sul referendum, perché avrebbe dovuto essere più “populista” e attaccare governo e Pd.

Conosco Aldo da oltre 25 anni, al punto da ritenerlo un amico, anche se non ci sentiamo più con la stessa frequenza di un tempo. Lo stimo e da lui ho imparato diverse cose, sia nella ricerca storica che in politica.
Non condivido particolamente ma comprendo la sua vicinanza (critica in certi momenti) al M5s, che considera (se capisco bene) un partito di massa anti-liberista  con forti connotazioni”di sinistra”.
Personalmente, temo la deriva più “nazionale”, anti-globalizzazione e anti-Ue di un certo numeri di intellettuali di sinistra, come succede in Francia con Michel Onfray e altri, ma non vorrei farmi mandare affanculo da Aldo…

Veniamo al merito. Che dice Aldo, in quel post? Che Zagrebelsky era la figura meno indicata per un confronto politico con Renzi, perché pur essendo un grande costituzionalista non ha capito qual era la platea a cui parlare, non è in sintonia col pubblico, non conosce i meccanismi tv e soprattutto avrebbe dovuto aizzare contro il governo:

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Un pregio  dei testi, spesso lunghi, è quello di essere diretti (e spesso divertenti). In questo paragrafo c’è tutto l’Aldo che conosco, quello che spiega la tecnica della politica. Giannuli è un fan della formula “a brigante, brigante e mezzo”, specie quando ti trovi a che fare con avversari che maramaldeggiano.
E francamente credo che il governo stia maramaldeggiando, sul referendum, tra appelli populistici alla riduzione del numero dei politici, calcoli di comodo su quanto aumenterebbe il Pil con la riforma costituzionale, promesse di tutti i tipi (compreso il redivivo Ponte sullo Stretto).
Ovviamente, anche questa è politica. Demagogia, sì, ma (purtroppo) la demagogia fa spesso parte abbondante, nel gioco politico. Come i comizi di Renato Brunetta e di altri personaggi di simile levatura, con buona pace mia e dei troll Pd (costretti ogni tanto ad arrampicarsi sugli specchi, come succedeva del resto ai militanti accorati del Pci di alcuni decenni fa: per esempio sul Ponte o sull’Italicum).

Nella fattispecie, il primo ad averla buttata in caciara sul referendum è stato lo stesso Renzi, quando ha legato il suo destino all’esito del voto.

In quel modo il premier e leader del Pd ha dato ai suoi avversari un’arma potentissima, slegando il refendum dal merito e facendone un voto su di sé.
Ora, dopo mesi, ha capito che era una cazzata e ha cambiato tiro. Non parla più di dimissioni. Maria Elena Boschi ha detto che deciderà il Quirinale. Angelino Alfano ha detto detto che il governo, anche se vince il no, non cade (l’ha detto pure Stefano Parisi, quello candidato al momento a fare il dopo-Berlusconi). Insomma, la Grande Retromarcia è un fatto compiuto, mentre gli esiti del referendum sono incerti (Certo, Renzi, sarebbe indebolito, è chiaro).

Ciò fa anche sì che la campagna elettorale del no ora sarà sempre più in salita.
Anche perché il fronte del no è comunque molto composito: diciamo un discreto bordello in cui c’è di tutto, dall’estrema sinistra all’estrema destra, uniti solo contro Renzi.
E comunque sembra abbastanza fuori discussione che si voti prima del 2018, comunque vada. Il che consente annche di avere tempo a sufficienza per cambiare la legge elettorale ed evitare un’eventuale vittoria del M5s.

Detto questo, appartengo alla schiera degli inguaribili romantici che pensano si possano scrivere leggi e Costituzioni chiare a tutti, e che bisognerebbe confrontarsi sul merito. E mi trovo pure in difficoltà per il dopo-voto: voterò no al referendum, perché lo ritengo un pasticcio, ma l’idea che il M5s possa andare al governo, oggi, francamente, non mi piace (lo so, Aldo, sono un controrivoluzionario, in fondo; o, ancora peggio, sono un’inutile anima bella).

 

 

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