L’idea che il capitalismo sia il responsabile del cambiamento climatico che minaccia l’esistenza del genere umano è una pia illusione. Le alterazioni del clima prodotte dall’intervento umano sono iniziate prima del capitalismo. Il socialismo reale ci ha lasciato un’ingombrante eredità d’inquinamento. La produzione industriale di carne è responsabile del 30% delle emissioni. E oggi ci sono grandi aziende capitalistiche che si sono riconvertite al green. Ode del capitalismo? No. Il problema però è che così si sbaglia bersaglio.
Alcuni anni fa, quando ancora non si parlava di cambiamenti climatici, nel cosiddetto arcipelago verde circolava la tesi della presunta contraddizione uomo-natura (ignorando che l’umanità è una forza della natura), sulla falsariga di quella marxiana capitale-lavoro. Adesso, quel pezzo di sinistra radicale che ha scoperto, magari un po’ tardi, la questione ecologica, insiste su quella che si potrebbe definire contraddizione clima-capitalismo. Si tratta cioè dell’idea che eliminando il capitalismo, causa dei cambiamenti climatici, si abbatterebbe anche l’emissione di gas a effetto serra: o, al contrario, che attuando politiche pro-clima il capitalismo non sopravvivrebbe.
Le cose però non stanno esattamente così. Prima di tutto, una volta stabilito che il cambiamento del clima dipende dalle azioni umane, bisogna capire quando è iniziata l’alterazione e come. Se è vero che si considera l’inizio della produzione industriale come innesco dell’aumento di temperatura globale, ci sono valutazioni diverse su altri fattori. Per esempio, l’agricoltura. Nel libro “The Human Planet / How We Created the Athropocene”, di Simon Lewis e Mark Maslin, uscito nel 2018 e non ancora tradotto in Italia, si ricorda la “scoperta” dell’America da parte degli europei e la scomparsa di decine milioni di indigeni che ne seguì (parte del cosiddetto Scambio Colombiano), frutto di epidemie ma anche di strategie di vero e proprio genocidio.
Questo calo spaventoso di persone (le stime parlano di 50 milioni) che praticavano l’agricoltura provocò una diminuzione dell’anidride carbonica nell’atmosfera e un leggero ma significativo raffreddamento delle temperature, intorno al 1600 (ed è quello il momento, secondo Lewis e Maslin, in cui si trovano le tracce della nascita del cosiddetto Antropocene).
In realtà, la temperatura si era alzata in precedenza proprio a causa della diffusione dell’agricoltura sul pianeta, che aveva immesso nell’atmosfera CO2 e metano, evitando così la glaciazione altrimenti attesa. L’agricoltura nasce circa 12.000 anni fa, il capitalismo – cioè il sistema economico in cui capitali e mezzi di produzione sono privati e distinti dal lavoro – tra il Quattrocento e il Cinquecento, l’industrializzazione arriva nel Settecento.
L’industrializzazione – che non è stata creata soltanto dal capitalismo, ma da esso è stata sfruttata, come succede spesso nel caso delle innovazioni tecnologiche – ha consentito l’aumento della produzione e della popolazione a livelli impensabili (per passare da 5 milioni ai 500 milioni di abitanti sulla Terra, nel Cinquecento, ci sono voluti 10.000 anni; con soli 500 anni l’umanità poi è più che decuplicata).
Ma non si può sottovalutare il ruolo iniziale dell’agricoltura, che ha trasformato l’organizzazione sociale umana, e lo stesso ecosistema ben prima, perché quella che noi siamo soliti chiamare natura è un ambiente ampiamente modellato dagli umani nel corso dei millenni.
E non si può dimenticare nemmeno che anche il socialismo, cioè la principale ideologia antagonista del capitalismo, ha avuto una simile propensione allo “sviluppismo”.
Quando parliamo di piani quinquennali, comunismo= elettrificazione + soviet etc parliamo esattamente di questo. Il risultato è che il socialismo reale (cioè quello che c’è stato) ha lasciato in questo secolo centrali e fabbriche super-inquinanti, oltre a un incidente nucleare gravissimo come quello di Chernobyl (che non ha attinenza diretta con la questione del cambiamento climatico, ma che è una cartina di tornasole di quella che era la politica industriale dei paesi socialisti).
Si può anche sostenere che l’Urss e i suoi alleati non fossero più veramente socialisti, ma è un po’ più difficile smontare l’eredità industrialista di Lenin. E c’è ancora la Cina, che pratica una specie di capitalismo socialista, uno dei paesi più inquinati al mondo ma che al tempo stesso sembra essersi lanciata nella produzione di tecnologie verdi.
Nel corso dei decenni è poi diventato preponderante il peso della finanza sull’economia, e sarebbe un errore considerare i capitalisti come i personaggi ritratti da George Grosz al principio del Novecento, uomini paffuti che fiumano enormi sigari sotto immense ciminiere. La finanza vende prodotti spesso immateriali, guadagna in borsa e non, anche solo su transazioni. Investe in start-up supertecnologiche e magari di tecnologie pulite, a basso impatto di CO2. Mentre molte grandi multinazionali hanno iniziato a riconvertirsi alle energie rinnovabili, e molte banche hanno fatto (e fanno ancora) affari con i pannelli solari.
Ovviamente, non vale per tutti. Gran parte del settore dei combustibili fossili non vuole ancora mollare il petrolio, e il gas. L’industria della carne, che secondo le stime Onu è responsabile del 30% delle emissioni climalteranti, non può probabilmente diventare molto sostenibile: e qui parliamo di una questione, quella dell’alimentazione, che è più culturale e riguarda tutti, non solo i cultori del capitalismo.
Insomma, il capitalismo considera certamente l’ambiente una merce, come tante altre cose (per esempio, il lavoro), ma è anche pronto a rinnovarsi dal punto di vista energetico, e lo sta facendo, a condizione di non mettere in discussione i rapporti di potere. Perché in fondo questo è – anche, non solo: un tipo di potere.
Questo significa anche che il capitalismo può salvare il mondo, come lo conosciamo? Nessuno può dirlo, né scommettere sulla pura tecnica – per esempio quella di stoccaggio della CO2 – come risoluzione dei problemi – come strumento di salvataggio, senza modificare parecchio le abitudini e i consumi.
Il cambiamento climatico potrebbe generare nuovi tipi di business, e lo sta già facendo, se pensiamo appunto alle energie rinnovabili e ai nuovi materiali, ma ci sono in vista enormi trasformazioni edilizie ed urbanistiche che potrebbero subire le aree costiere e le grandi città in particolare (è utile leggere un recente libro di fantascienza, New York 2140, per farsene un’idea).
Ma potremmo andare anche verso regimi dittatoriali, se la crisi ecologica dovesse precipitare. Conflitti per le risorse, zone protette per i potenti e i più ricchi, migrazioni di massa, legge marziale.
Per questo, pensare che il problema sia il capitalismo, e non la storia stessa che abbiamo costruito come esseri umani, rischia di essere al più una pia illusione.
Intervenire sul cambiamento climatico ora è importante per la vita umana (meno per il pianeta, che può fare a meno di noi ). Ma la giustizia climatica, l’estensione della democrazia, la qualità della vita per tutte e per tutti non sono affatto scontate.
un fiume in piena, Max, quest’articolo, complimenti, da rileggere
ci sono tante code da sviluppare