Sei mesi di musica (a la manière de Mollica)

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Per Spotify questo è il link alla playlist. Questo invece è quello per Apple Music.

Questa volta farò come Vincenzo Mollica, detto Er Mollicone, critico ufficiale del Tg1 dall’inizio dei tempi, amico di tutti, stimato e riverito da tutti: solo parole buone.
Perché per anni non ho mai capito perché Mollica non facesse almeno qualche minimo rilievo a disco, un libro, un film un accidenti che magari non gli era piaciuto.
Poi ho avuto un’illuminazione: perché perdere tempo a parlare o a scrivere di roba che non ti piace, sprecandoti anche a dare spiegazioni inutilmente lunghe, e attirandoti magari inimicizie? Molto meglio dire e fare solo del bene (in fondo, è fare del bene anche non citare un disco che ti ha fatto cacare, dando all’autore un’altra possibilità).

Dunque farò lo stesso, mollicherò, scriverò solo della musica che fino a qui, quest’anno, mi è piaciuta o piaciucchiata. Quel che non cito, o non l’ho ascoltato (direi il 99% della roba che esce, viste le quantità) oppure per me non vale la pena.
Ho messo anche i link ai video, quando disponibili.

Comincio dall’album nuovo di Mo’ Horizons, un duo di dj tedeschi sopravvissuti degnamente all’epoca del Buddha Bar e delle sue sonorità rarefatte (due palle, in finale). Il loro album si intitola semplicemente Music Sun Love ed è molto estivo. La loro si potrebbe definire fusion, ma non c’entra niente con Al Di Meola, piuttosto con quei ristoranti che mettono insieme cucina asiatica e brasiliana, passando per piatti europei e simil-etnici. Un tappeto sonoro che mescola jazz, bossa nova, drum ‘n’ bass (come la traccia che preferisco, You Gotta Know It), soul e altro ancora, di solito piuttosto ritmato.

Tenemos Todo è una canzone che Radio Nova mette a palla in questo periodo, nella versione remixata da Taggy Matcher: la canta Mathieu Des Longchamps, un giovane musicista canadese cresciuto in Sud America e in Francia, da tenere d’occhio (ha tirato fuori pochi singoli già di successo). Questo è un pezzo reggae un po’ stralunato cantato in spagnolo, e se lo avesse fatto Alvaro Solar da mo che in Italia tutti i ragazzini starebbero ballando.

Tra le cose che Radio Nova ha spinto un bel po’, anche un brano dei francesi Biche, Kepler, Kepler, che ho ascoltato a ripetizione. Pop-rock internazionale, cantatato in francese. Bel passaggio nel testo: “J’ai fini de survoler ces gens  / dont tu aimes tant parler  / Je t’avoue qu’au fond  /ils ne m’ont pas vraiment intéressé” (Ho finito di sorvolare questi tizi di cui ami tanto parlare, ti confesso che in fondo non mi hanno mai veramente interessato). Forse, la Terra che non gira più, è la fine di una storia di coppia, ma chissà.

I Believe in Something Better è solo uno dei tanti pezzi del disco nuovo dei Fat White Family che mi piace. Loro sono un gruppo di scocciati britannici, che hanno un stile psichedelico tutto loro. Il loro album precedente, Songs For Our Mothers, è uscito nel 2016 (un pezzo è finito anche dentro Trainspotting 2), e l’ho ascoltato assiduamente. Di che parla veramente il pezzo? Lo ignoro. Ma è bello, perché credo in qualcosa di meglio.

Questo è il punk (o post-punk, boh) in versione contemporanea che mi piace: Hurricane Laughter, dei Fontaines D.C., una band di Dublino che è al suo debutto discografico. Consiglio anche l’ascolto di Chequeless Reckless, singolo forse più noto (tutti e due i pezzi sono usciti prima dell’album). Belli i testi (Charisma is exquisite manipulation / And money is a sandpit of the soul), tiratissima la musica, decisa e forte la voce di Grian Chatten.

Un po’ di brani punk-rock-pop sparsi. Prima di tutto Texas Instruments dei Priests, una band di Washington piuttosto politicizzata al secondo album (forse un po’ più melodico del primo), che in questa canzone parla del Texas, e non in termini propriamente elogiativi. L’attacco del pezzo mi ricorda parecchio i Pretenders del primo disco, in piena new wave. Poi Bimbo (parola che gli americani usano in genere per una donna bella e cretina) dei Coathangers, gruppo di Atlanta attivo da bel po’ di anni, al sesto album. Infine Nothing At All, degli australiani Stroppies. Non c’è nulla di nuovo, nel loro suono, probabilmente: è tutto un mix di post-punk e pop veloce, però mi piace.

Altro pacchetto, quello delle cantanti. Da segnalare Stella Donnelly, una ragazzetta scozzese-australiana al suo primo album, di cui ascolto spesso Old Man. Un che, nonostante la chitarra melodica e la voce suadente di lei, parla di un violentatore. Ancora, un’altra giovane cantautrice australiana Julia Jacklin, al suo secondo album, con la sua Head Alone. Nella suo biografia leggo che ha cominciato a cantare da bambina ispirata da Britney Spears, ma quello che si ascolta qui è tutt’altro, musicalmente.
Ashley Daneman è un’altra cantautrice, ma americana,  al secondo album, e ha già vinto un premio della rivista “Mojo” intitolato a Joni Mitchell il suo genere è definito da Apple Music come jazz, ma faccio fatica a considerarlo tale. Il pezzo che mi piace di più si chiama I Alone Love The Unseen in You.
Parlando di jazz, Rosie Turton è una musicista londinese che suona il trombone – ha cominciato a 11 anni – e guida un quintetto col suo nome. Per me è stata una scoperta casuale. Il pezzo, solo musica niente liriche, si intitola Butterfly
La terza australiana del mazzo è Sloan Peterson, una ventenne rockettara che pare uscita dagli anni 60. Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma la sua musica è divertente ed energetica. Ascoltate Midnight Love per farvi un’idea.
L’adolescente Billie Eilish, con la sua voce sexy e torbida, in questi mesi è diventata piuttosto famosa pure tra i cinquantenni, con relativi sensi di colpa perché sembriamo il solito branco di allupati che lumano l’amica bona della figlia. Il pezzo è, ovviamente, Bad Guy: “I like it when you take control / Even if you know that you don’t / Own me, I’ll let you play the role / I’ll be your animal / My mommy likes to sing along with me / But she won’t sing this song / If she reads all the lyrics / She’ll pity the men I know”.
Hamzaa è una giovane cantante r’n’b londinese. Ha da poco pubblicato un album di soli 23 minuti, interessante. Stranded Love ha avuto un certo successo, ma la canzone di punta è Breathing, uscita come singolo già nel 2018.
Un’altra solista, l’ultima, ma non per importanza. Si chiama Jamila Woods, viene da Chicago e ha tirato fuori un album di r’n’b e soul bello, piuttosto politico nei testi, che s’intitola Legacy Legacy!, ogni brano del quale rimanda all’artista che l’ha ispirata. In questo caso il pezzo è Zora, dedicato alla scrittrice Zora Neale Hurston. A me ricorda, lei, un po’ Erykah Badu.

Ritorno al jazz, con due brani, uno di una band londinese e l’altro di un gruppo di Chicago. Il primo Adwa, dei Kokoroko, guidati dalla trombettista Sheila Maurice-Gray, ha un impianto jazz su una ritmica afrobeat. Il secondo, Stardust, è dei Rogue Parade, messi in piedi col contributo determinante del sassofonista Greg Ward, e ha un suono molto più classico (non a caso è una cover dei un famoso standard di Hoagy Carmichael). Insomma, nuove direzioni e classici del genere.

Sto ascoltando con una certa frequenza l’album dei Vampire Weekend, Father of The Bridge, che è un melange di stili. La band è tornata dopo una pausa di quasi sei anni, e il disco ha avuto un’ottima accoglienza. Io non sono così convinto, forse perché amavo il loro suono più riconoscibile di prima. Per questo, in questa playlist ho inserito Sunflower.

French Cassette è il titolo di un altro curioso album che ho trovato per casa, nelle mie esplorazioni del catalogo di Apple Music. Si tratta del terzo disco di un duo francese, Souleance, che fin qui ha fatto soprattutto hip hop strumentale, e che anche ora usa un sacco di campionamenti, tratti dalla musica francese degli ultimi 30 anni, con una preferenza per gli anni 70-80. Il risultato è molto divertente. Il pezzo che ho scelto è Le Sexy (con un parlato assolutamente delirante alla fine).

I Tender sono un duo londinese di musica di electro-pop che non conoscevo prima di ascoltare Fear of Falling Asleep, Paura di addormentarsi, che ha un testo con versi come questi: “It’s not bad that you can’t fall asleep / It’s not bad that you’re scared of the dark / It’s just something you’re born with I guess”.

Una bella scoperta è anche l’americano Tyler The Creator, un hiphopper che ha fatto un album senza pecche che s’intitola Igor. Non so dire gran che dei suoi testi, credo meriti un ascolto complessivo. Qui però segnalo il pezzo Earfquake (‘Cause you make my earth quake / Oh, you make my earth quake / Riding around, your love is shakin’ me up and it’s making my heart break).

Dei Foxygen ho già parlato in passato. Nel 2017 hanno pubblicato un album fichissimo, Hang. Questo disco per me non è allo stesso livello, ma qualche titolo comunque merita, comprese le citazioni che spesso contiene.  È il caso di Work, che credo contenga anche un riferimento, verso la fine, a una canzone degli Heaven 17, Crushed By the Weel of Industry.

Di The Streets, al secolo Mike Skinner, è uscito da un po’ un disco di remix bizarro: contiene 25 tracce, ma in realtà si tratta di sette canzoni, quattro delle quali riproposte in varie versioni. La mia preferita è Don’t Mug Yourself (The Bigshot Remix). Che non è quella del video, però.

I Deerhunter hanno pubblicato a inizio anno un album che non ho ancora deciso se mi piace, Why Hasn’t Everything Already Disappeared?. Ma questo singolo, Death in Midsummer, che comincia con questo accordo lungamente ripetuto sulla tastiera di una spinetta (dico bene?), è fico.

Infine. Fuse ODG è lo pseudonimo di Nana Richard Abiona, un artista anglo-ganese che ha pubblicato quest’anno un album intitolato New Africa Nation, molto africano come indica il titolo con un sacco di ospiti (Ed Sheeran, che suona nel pezzo che segnalo, è il più noto ma non il migliore). Boa Me (aiutami) è il titolo di un pezzo uscito come un singolo da un bel po’, nel 2017, ma che è un buon esempio del sound di questo disco.

 

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