I 50 anni del Manifesto, povero ma bello

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Da pochi mesi “Il Manifesto” ha compiuto 50 anni, ma l’anniversario è passato quasi sotto silenzio.

Non parlo del “quotidiano comunista” che è sempre in edicola, nonostante le mille difficoltà economiche e la scomparsa dei comunisti dallo scenario politico, ma della rivista con lo stesso nome fondata da Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri e un gruppo di intellettuali e dirigenti del Pci che contestavano da sinistra la linea del partito.

Oggi, di quel “gruppo di avventurieri” – definizione salgariana usata da Valentino Parlato – sono ancora in vita due donne che sono state punto di riferimento per generazioni di militanti di sinistra: Rossanda e Luciana Castellina.

Fu in quel momento, nel giugno del 1969, con quella testata che è sempre la stessa da allora, sopra un fascicolo di 80 pagine stampate fitte, con poca pubblicità e soltanto di libri, che nacque tutto. Ne seguirono le accuse di essere filocinesi (vero) e “frazionisti”, la radiazione a novembre dello stesso anno, poi la nascita del quotidiano (nel 1971), la partecipazione fallimentare alle elezioni politiche del 1972, la breve unificazione con il Pdup.

E poi la rottura (anzi, le rotture, perché di scontri interni “il manifesto” ne ha sempre vissuti parecchi) tra i fondatori; e tra i fondatori e le nuove leve, nel ’90, sullo scioglimento del Pci, il rischio di diventare l’organo di Rifondazione Comunista.

E ancora la clamorosa campagna pubblicitaria con il claim “La rivoluzione non russa”, e il sogno, per un po’ di tempo, di quotarsi in borsa. Fino ad arrivare a oggi, in tempi di M5s e Lega, con una geografia politica completamente sconvolta, in cui il piccolo “manifesto” cerca di ricostruire una sinistra.

Ho scritto molto sulla storia de Il Manifesto, soprattutto riguardo gli anni tra il 1969 e il 1972, tracciando il percorso del gruppo degli ex discepoli e sostenitori di Pietro Ingrao – a lungo leader della sinistra interna – sin dai primissimi anni Sessanta, perché è lì che nascono le ragioni del gruppo. E, riassumendo anche i decenni successivi, ho cercato di tirare qualche conclusione su quel che “il manifesto” ha rappresentato politicamente, la sua “ideologia”.

Sono probabilmente in pochi a sapere che quella rivista si sarebbe dovuta chiamare, nelle intenzioni di Magri, “Il principe”, in omaggio ad Antonio Gramsci e alla sua lettura “di sinistra” di Machiavelli. E chissà che impressione avrebbe fatto oggi un quotidiano così intitolato con il sottotitolo, mai rinnegato, “quotidiano comunista”.

Forse non è molto noto anche che “il manifesto” fu una delle prime cooperative editoriali e una delle prime testate a usare la teletrasmissione (e poi ad andare su Internet); che per anni ha ricevuto un premio come “giornale più libero d’Italia” e che sulle sue pagine hanno scritto in tanti, famosi o che sono lo sono diventati, a partire da Umberto Eco.

E oggi, nonostante le difficoltà, aggravate dalla decisione del governo gialloverde di tagliare il fondo per l’editoria, “il manifesto” resta, almeno per me, un giornale “povero ma bello”.

(questo post è stato pubblicato originariamente il 3 settembre 2019 su HuffPost)

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