
Il dibattito sulla riduzione del numero dei parlamentari, in corso in questi mesi, continua a riguardare non tanto l’efficienza delle istituzioni democratiche, quanto la solita questione dei “costi della politica”. Come se riducendo il numero di deputati e senatori risolvessimo felicemente i problemi del debito pubblico italiano.
Basta solo un confronto tra le cifre – tra entità del debito e del risparmio che così si avrebbe – per capire che non è così. Ma intanto, la campagna “dagli al politico” organizzata da altri politici sembra funzionare.
Non è una questione nuova, in realtà si trascina da decenni, e nel 2013 (governo Letta) ha già provocato ufficialmente l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Che qualcuno oggi torna a invocare, perché, ripristinandolo, si ridurrebbero i casi di corruzione dei politici.
Non è così, come indica la nostra storia repubblicana. Dare soldi ai partiti – cioè quelle associazioni dei cittadini che concorrono a determinare la politica nazionale, come dice la famosa Costituzione “più bella del mondo” – non impedisce di per sé scandali, ma va considerato un “male necessario”, perché altrimenti la politica rischia di diventare appannaggio definitivamente di pochi e di interessi poco chiari.
Intanto, la storia. Il finanziamento pubblico vero e proprio inizia con la cosiddetta Legge Piccoli del 1974, che serve soprattutto a sanare gli effetti di una serie di inchieste su esponenti politici in odore di tangenti, come il cosiddetto “Scandalo petroli”, che l’anno prima aveva toccato i partiti di governo (Dc, Psi, Psdi, Pri). Allora si disse che la legge serviva proprio a evitare fenomeni di corruzione per finanziare l’attività dei partiti, ma i casi continuarono.
Nel 1978 un primo referendum dei radicali per abolire la legge fallisce. Ma nel 1993, dopo Tangentopoli – che mette in luce un sistema soprattutto di arricchimento personale di politici – l’abrogazione passa a stragrande maggioranza. Il Parlamento però cambia la legge e introduce i rimborsi elettorali. Un’altra forma di finanziamento della politica, insomma.
Vent’anni dopo, però il sistema finisce, sull’onda delle proteste popolari, delle iniziative populiste e della crisi finanziaria iniziata nel 2008.
Che succede, oggi? Come spiega un dossier recente della fondazione indipendente Openpolis, dal 2013 al 2017 le entrate dei partiti, ora basate sul sistema del 2 per mille e delle donazioni, si sono più che dimezzate. I gruppi parlamentari però incassano più soldi dei partiti, in teoria per attività “istituzionali”. Solo che spesso i confini tra attività politica e istituzionale sono labili.
Nel frattempo, sono spuntati in questi anni think thank, fondazioni e associazioni politiche (erano 121 fino a questa estate). Cioè gruppi che fanno capo a singole personalità, o a correnti di partiti, o sono trasversali. Oppure, gruppi senza politici ufficialmente alla guida, ma di fatto legati a partiti.
Con la legge anticorruzione del primo governo Conte è arrivata più trasparenza nel settore, ma queste associazioni ora possono anche ricevere contributi dall’estero, a differenza dei partiti. E se si può sapere chi ha formalmente pagato per la propaganda online, non possiamo invece sapere se qualcuno ha passato denaro a un prestanome per farlo.
Secondo Openpolis poi le informazioni date dai parlamentari sui propri finanziamenti non sono facilmente consultabili, rendendo difficili i controlli. E mancano i mezzi a disposizione della commissione di garanzia che dovrebbe controllare bilanci e statuti.
Il risultato quindi, è che oggi abbiamo una pluralità di gruppi di interesse che si muovono con più soldi – anche pescando all’estero – dei partiti “brutti e cattivi”, ma senza averne la legittimità politica che dà invece a questi ultimi la Costituzione. Non abbiamo una legge sulla propaganda online, che invece le forze politiche usano parecchio. Abbiamo partiti “poveri”, insomma, ma rischiamo di avere politici “ricchi”, e comunque ancora più facilmente sensibili a interessi diversi.
Quindi, forse sarebbe meglio introdurre un finanziamento che assicuri prima di tutto servizi, più che soldi, ai partiti, ma accompagnato da regole stringenti e soprattutto dall’effettiva possibilità di fare controlli. Ci sono tanti esempi in giro per il mondo e anche proposte. Non è difficile. Basta smetterla con il populismo caciarone che va a braccetto con la politica delle élite senza controllo.
(questo post è stato originariamente pubblicato su HuffPost il 7 ottobre 2019)