
La vicenda della cosiddetta “tassa sulle merendine”, che ora invece nelle intenzioni del governo dovrebbe essere una “tassa sugli zuccheri” – peraltro adottata già in altri Paesi, con risultati diversi sulla riduzione dei consumi – mi ha portato quasi inevitabilmente a pensare a quanto sia importante il ruolo, anche affettivo, del cibo nella vita. In particolare, nella vita mia e in quella di molti miei coetanei, figli di genitori nati prima o durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tra i vari segni lasciati dal conflitto, la fame è stata uno dei più forti, soprattutto per mia madre, che nel 1940 aveva due anni e viveva a Roma. Una fame forse più “psicologica” che effettiva, certamente non paragonabile all’inedia che colpisce ancora oggi milioni di bambini e persone nel mondo, nonostante gli obiettivi di sviluppo del Millennio che si è posto da tempo l’Onu. E non è dunque in caso che assicurare ai figli grandi quantità di cibo vario, cucinato, elaborato sia sempre stato per mia madre anche un modo di esprimere il proprio amore. Un modo “tangibile”, una cosa come: “Ti amo un milione di cappelletti” (mia madre è di origini emiliane).
E non è neanche un caso che io stesso abbia ereditato una preoccupazione evidente per il cibo, senza che ve ne sia alcun reale bisogno, anche nei confronti dei miei figli.
Non è una novità. Quella di nutrirsi è sempre stata una preoccupazione importantissima nella storia umana. Lo sappiamo. Grazie agli studi sul Dna, che negli ultimi anni hanno fatto progressi giganteschi, sappiamo anche che la malnutrizione ha effetti non solo sui figli di coloro che hanno sofferto la fame, ma pure sulle successive generazioni, anche se in modo diverso.
Lo racconta per esempio il genetista Adam Rutherford nel suo libro “Breve storia di chiunque sia mai vissuto”, quando parla della “Hongerwinter”, la carestia vissuta nell’ovest dei Paesi Bassi durante il 1944, a causa dell’embargo alimentare attuato dai nazisti. Quella fame ha prodotto delle modificazioni epigenetiche non solo nei figli di chi l’aveva patita, ma anche nei nipoti, con la loro obesità neonatale, correlata a rischi maggiori di diabete e altri problemi di salute. Dall’eccessiva scarsità di cibo al suo eccesso. Leggendolo, non ho potuto fare a meno di pensare alla mia storia familiare.
Cibo, amore, qualità della vita. Però adesso e qui, nell’Europa del 2019, qualità della vita non significa, appunto, ingozzarsi nel timore che la carestia possa tornare, ma al contrario mangiare bene e meno. È il famoso “segreto per vivere 100 anni” (bene, si spera), come lo chiamano i siti di alimentazione. O, come dice il nutrizionista Luigi Ferrara: “la restrizione alimentare senza malnutrizione”.
Quindi, che sullo zucchero prevalga una tassa – che serve ovviamente anche a fare cassa, ma come quelle sul tabacco, l’alcol, etc – oppure si decida di costringere per legge i produttori a ridurre i livelli, il punto deve restare lo stesso: migliorare la qualità della vita delle persone. Anche quello è un atto d’amore.
(Questo post è stato pubblicato originariamente su HuffPost il 21 ottobre 2019)