
“L’alba di tutto” (Rizzoli) di David Graeber e da David Wengrow e il perché a un certo punto invece le persone sembrano aver perso “la libertà di immaginare o adottare altre forme di esistenza sociale”
Se avete letto i libri di Jared Diamond e di Yuval Noah Harari e se più in generale vi appassionano le ricerche e le ipotesi su quel lungo periodo che chiamiamo preistoria, sulla nascita dell’agricoltura, delle città e degli stati, la distribuzione del potere nelle società, allora non mancate “L’alba di tutto” (The Dawn of Everything. A New History of Humanity), il libro scritto da David Graeber e da David Wengrow, pubblicato negli Usa a novembre e che in Italia uscirà a febbraio per Rizzoli.
Lo statunitense Graeber, morto a 59 anni poco dopo la stesura del libro, è noto forse al grande pubblico più come attivista libertario di Occupy Wall Street (per cui coniò lo slogan “Siamo il 99%”). Ma come antropologo ha prodotto un’originale, ampia e apprezzata bibliografia, che va dalla storia del debito allo schiavismo, dalla tecnologia alla democrazia. Wengrow invece è un archeologo britannico con una vasta esperienza internazionale, autore di saggi sull’origine della scrittura, le società neolitiche, la nascita delle civiltà.
“L’alba di tutto” è un volume di 700 pagine (un terzo delle quali occupato da lunghe note) che comincia con una questione apparentemente accademica, e cioè quella della “nascita della diseguaglianza”, tema caro a Jean Jacques Rousseau. Alla base della teoria di Rousseau, quella cioè di un’epoca primordiale felice in cui non esisteva lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo – dicono Graeber e Wengrow – c’è l’idea cristiana della cacciata dal paradiso terrestre, che poi ha continuato a ispirare generazioni di intellettuali e anche antropologi, per diventare quella teoria dei piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori che costituivano gruppi egualitari