Ci sono alcune poco lodevoli omissioni, in queste nuove storie di decapitazioni e barbarie. Omissioni forse involontarie. Perché una delle patologie più diffuse della politica e dell’informazione è la mancanza di memoria (o talvolta la memoria selettiva).
Smemoratezza che d’altronde è di grande aiuto per il mantenimento dell’autostima e della presunta superiorità di una cultura su altre (nella fettispecie, quella che ama definirsi Occidentale).
Ma che forse, al tempo stesso, ci consente anche di salvaguardare la sanità mentale e la capacità d’indignazione, guardando al futuro.
Se con la memoria facessimo i conti, e non operassimo una semplice rimozione.
Un esempio di mancanza di memoria a breve termine è l’omicidio di Daniel Pearl, reporter del Wall Street Journalist che indagava in Pakistan su alcuni gruppi militanti e che fu sgozzato davanti a una telecamera dai suoi rapitori. Le decapitazioni dall’Iraq e dall’Arabia saudita vengono proposte nei commenti (e poi discusse dai commentatori di rimando, ruolo che i blogger incarnano spesso) come se fossero una tragica prima da Reality Show. Ma non lo sono affatto, proprio perché c’era il caso Pearl (e forse altri precedenti che abbiamo dimenticato).
Eppure, la cultura della decapitazione non è così lontana da noi, se è vero che lo strumento per eccellenza per praticarla (la ghigliottina) fu inventato da un francese, facendone così una celebrazione industriale.
Ma anche la più barbara e sanguinolenta pratica artigianale ha ancora i suoi fan. Pensate alle decapitazioni di avversari da parte della Camorra e di altri clan, che servono anche da monito, oltre che da esecuzione puntuale.
Lo stesso vale per le altre pratiche di massacro care ai conquistatori negli altri continenti.
In America gli Incas conquistarono terre e potere compiendo un genocidio – anche senza armi di distruzione di massa – ai danni delle popolazioni precedenti prima di subire simile sorte per mano degli spagnoli. I quali massacrarono anche gli aztechi, utilizzando a fini propagandistici anche la propensione di questi ultimi per i sacrifici umani in grande stilo (con debito riciclaggio di epidermide delle vittime: il serial killer de “Il silenzio degli innocenti” è uno squallido imitatore piccolo borghese, insomma).
Con al Qaeda e tutti i suoi piccoli e grandi imitatori, ispiratori e competitor, siamo alle solite. Abbiamo dimenticato i nostri orrori del passato prossimo o anche di ieri (il nazifascismo e i campi di concentramento, i gulag, la guerra d’Algeria, l’Argentina etc etc fino ad arrivare dove volete) e siamo pronti a rigettare sugli arabi – indistinta etichetta – il nostro carico di smemorata emotività. Disumanizzando i decapitatori, che a loro volta ritengono disumani, al massimo bestie parlanti, coloro che decapitano. E via così.
La perdita della memoria, però, non è sempre un dato negativo. Lo è quando non impedisce di compiere nuovamente simili tragedie. Lo è quando fa da sostegno, appunto, alla pretesa di coltivare la propria superiorità.
Ma superare la memoria consente anche di vivere nel futuro, e non solo nel passato. E’ il caso del Rwanda, per esempio, dove dopo un genocidio come quello del 1994 non solo gli ex carnefici ma anche le ex vittime hanno bisogna di uscure rapidamente dalla dimensione del ricordo, in qualche caso anche di dimenticare, davvero, per poter tornare a vivere.
(C’è probabilmente la necessità di un equilibrio, in tutto questo, ma non so ancora bene dove vada tracciata la linea)