Berlinguer ti voglio bene

Oggi, seguendo la registrazione dell’intervista di Piero Fassino a “La storia siamo noi” sul Pd e altre vicende quotidiane (Dico, convergenze, privacy) mi è capitato di vedere una carrellata di frammenti di interviste di Giovanni Minoli a Enrico Berlinguer, Achille Occhetto, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, vale a dire i predecessori di Fassino alla guida del Bottegone prima e del Botteghino poi (non c’era Alessandro Natta, ma il suo è stato regno breve).
E rivedere Berlinguer intervistato nel 1983, un anno prima della morte, mi ha colpito. Mi ha colpito la distanza, anche nell’eloquio, nei modi, rispetto ai seuoi successori. Il suo linguaggio. La sua compostezza. La scelta delle parole, molto poco televisiva, se si vuole, ma chiara, efficace.
Sono passati oltre 20 anni, e il mio ricordo di Berlinguer sui media di allora – interviste, interventi, etc – è piuttosto vago, anche se ho letto parecchi suoi articoli, suoi interventi all’epoca della mia tesi di laurea (ormai anche quella lontana nel tempo: era il 1990).
Per questo l’accostamento, reso possibile dal montaggio veloce della tv, mi ha colpito ancora di più.
Non sono mai stato un berlingueriano. L’anno in cui Berlinguer morì, poco prima delle Europee, andai al suo funerale, perché mi sembrava impossibile non tributare un omaggio alla sua memoria e insieme fare un atto di appartenenza – sociale, affettiva – a un popolo comunista di cui nel bene o nel male ho fatto sempre parte, la cui storia considero anche una parte, importante, della mia vita. Ma votai poi Democrazia Proletaria, perché la mia scelta era comunque più radicale.
Ho rivalutato – meglio: ho compreso, che non significa necessariamente trovar giusto – poi il suo pensiero, certe sue scelte e decisioni, negli anni.
E oggi, mentre continuo a non essere berlingueriano, mi ha colpito la distanza che mi è parsa umana (ma a me è sembrata pure di statura politica, e lo dico pur essendo noto che sono un Veltroni’s fan, più radical che liberal, non da ora)  tra Enrico Berlinguer quelli che lo hanno poi seguito. E che spesso ne rivendicano la continuità.
Probabilmente c’è di mezzo un discorso di generazioni. Quella di Berlinguer è un’altra biografia, senza dubbio (e non voglio dire che i vecchi siano meglio dei giovani).
Però, penso solo alla differenza abissale che c’è tra il Berlinguer preso in braccio (c’ero) al Pincio da Roberto Benigni, immortalo in una foto storica, e il Massimo D’Alema (ma poteva anche essere Veltyroni, o Fassino) che si fa fotografare col Gabbibbo. E penso di aver spiegato tutto.

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