Ieri sera, a cena, un mio amico, collega e compagno – se quest’ultima definizione ormai non gli va di traverso – mi ha confessato, senza tanti giri di parole, che alle ultime elezioni politiche ha votato Forza Italia. E che ha incontrato altra gente di sinistra che ha fatto la stessa cosa.
La notizia non mi ha sorpreso più di tanto, a dire il vero. Non perché pensavo già che l’amico fosse un “voltagabbana”, ma perché ho identificato subito quella che per me è la “sindrome dell’idealista”. Quello dell’elettore deluso di sinistra che vuole punire la sua (ex?) parte politica.
L’amico infatti non magnifica Silvio Berlusconi. Anzi, lo descrive come un personaggio, per quanto geniale (lo è, anche per me: ha inventato la politica pop), laido, il cui governo è stato il peggiore da decenni. Però dice: davanti a una sinistra che non è più neanche sinistra, i cui leader in realtà vogliono copiare tutti Berlusconi, essere potenti come lui, mediatizzati, sai che c’è? Voto l’originale. Voto Silvio.
Il ragionamento è comune a tanta altra gente, a tanti altri elettori che si definiscono di sinistra, e che poi in questi anni hanno finito per non votare, per votare più a sinistra o per formazioni politiche “anomale”, come la Rosa nel Pugno o l’Italia dei Valori (che non è una cosa di sinistra, veramente). O che continuano a votare Ds et similia turandosi il naso e proclamando a ogni occasione che è l’ultima volta, che il governo li delude, etc etc.
La questione è sempre la stessa. L’aspettativa dell’elettore di sinistra (e in parte di centrosinistra: ma nel ragionamento non ci metterei, per dire, gli elettori di Mastella o almeno una parte di quelli che votano Margherita o appunto per Di Pietro) è enormemente più alta di quella di persone che si riconoscono in altre aree politiche. E ci credo.
I partiti per cui votiamo sono spesso eredi di ideologie rivoluzionarie, pur essendo più o meno socialdemocratici o liberal da anni. E se la sinistra politica ed economica è ormai una sorta di spettro (nel senso di estinto), la sinistra morale e dei buoni sentimenti è spesso quello che ci resta da amministrare.
Veniamo poi da anni e anni e anni di opposizione. Il che a regola vorrebbe dire stavamo all’opposizione perché non avevamo la forza elettorale per essere finalmente maggioranza e governare. “Opposizione” per molti di noi è invece una specie di mantra salvifico, un marchio doc, una garanzia di non compromissione col potere e con il demonio economico.
Perché ovviamente andare al governo comporta fare alleanze, compromessi, etc.
Insomma, sembriamo cavernicoli: quelli appena usciti dalla caverna di Platone. E se nella vita comune di tutti i giorni, sul lavoro, in famiglia, cogli amici, siamo abituati alle mediazioni, ai compromessi, al fatto che per fare qualcosa di importante ci vuole tempo, sacrificio, sforzi, quando parliamo di politica – con la quale intratteniamo una relazione vaga, sempre più simile per certi aspetti a quella con lo sport o lo spettacolo – pretendiamo una situazione perfetta, scevra di contraddizioni, purezza di ideali, decisionismo. Insomma, dalla politica vogliamo i miracoli.
La responsabilità è nostra, di noi elettori? Be’, la responsabilità è certamente anche nostra, in quanto adulti e supposti responsabili dei propri pensieri e delle proprie azioni. Una responsabilità che condividiamo ovviamente con quelli che abbiamo eletto o che ci siamo ritrovati come “capi”. Con coloro che hanno spacciato, e continuano a farlo, la politica come una specie di missione religiosa, alimentando l’equivoco, privilegiando la questione morale e quella degli ideali, e mettendo in secondo piano il discorso degli interessi e quello della realtà quotidiana.
La “nostra diversità” non è un fattore politico, o almeno non può essere il solo fattore che conta. E tra l’altro non c’è solo la politica che fa la differenza tra le persone. Esistono numerose “diversità”, che in una cultura e in una società laica andrebbero assunte. Come andrebbero assunte le contraddizioni che esistono nella vita delle persone e delle società. Contraddizioni, che sono in certi casi solo apparenti, se misurate con il bilancino, e con cui si può tranquillamente vivere, ovviamente sempre tendendo all’equilibrio e l’armonia.
In fondo, a pensarci, in un paese culturalmente cattolico come il nostro, la dicotomia tra valle di lacrime terrena e Regno dei cieli da conquistare è applicabile anche alla politica e agli elettori di sinistra, e anche al ceto politico di sinistra. Vivere quotidianamente in un modo, e aspettarsi poi che nel Regno (dei cieli, o della giustizia, o di quello che volete voi) le cose vadano in un altro è assolutamente un sintomo di questo tipo.
Invece, la politica, quella terrena almeno, è quella delle scelte tra un certo numero di cose. Una scelta tra il meglio, o spesso anche tra il meno peggio. Col sistema elettorale aggioritario è certamente più frequente trovarsi a votare non il candidato o il partito che ti piace di più, ma quello che ti dispiace di meno. D’accordo, ci piacerebbe che così non fosse, ma così è. E così è anche nella vita normale. Le cose in politica si complicano un po’ (o si guastano) perché, come in tutti gli spazi plurali tocca avere a che fare con altre persone, altre idee, altri interessi, altri modi di vedere. Mannaggia.
Ecco, il mio amico ora sarà depresso ancora più di prima. Ma io sto invocando il senso della realtà, mica quello del sacrificio, caro.
Votare a sinistra non è obbligatorio. Non penso che votare Berlusconi sia poco o meno intelligente, anche se non penso che rappresenti le tue, di idee, caro amico.