La circostanza che Giuliano Ferrara sia pronto a varare una lista “per la vita” è interessante magari per chi fa calcoli elettorali (in questo caso, considerando Ferrara come Storace: una risorsa sì, ma per il centrosinistra, se davvero correrà per conto proprio, facendo perdere voti a Berlusconi) ma non aggiunge granché alla questione, risorgente, dell’aborto come “male supremo”.
La prima constatazione che faccio è al limite del banale. E’ sorprendente come a parlare di aborto – in senso politico-giuridico – siano quasi sempre, o solo, uomini. Mentre invece noto in questi giorni diverse lettere di donne che raccontano cosa è stata, o non è stata, per loro l’interruzione volontaria di gravidanza. Che cosa ha significato. Cosa hanno provato. Cosa pensano.
Io, forse perché sono un uomo, appunto, non credo che di aborto possano parlare soltanto le donne.
E’ chiaro che subire un aborto significa necessariamente mettere il proprio corpo in mano ad altri. Il proprio corpo di donna.
Ma è anche chiaro che un uomo che condivide con una donna la scelta di avere un figlio non mette soltanto il proprio seme, mette il proprio amore. E anche se non partorisce materialmente quel figlio, partecipa al processo della gravidanza. Chiunque sia padre sa che cosa intendo, sa che cosa si prova.
E dopo, condivide l’esperienza di crescere quel figlio, di accudirlo, di proteggerlo, di trasmettergli delle conoscenze, delle capacità, che lo rendano il più possibile forte e libero.
Trovo piuttosto aride le discussioni filosofico-morali sull’età in cui un feto sia considerabile persona. Aldilà dell’amore che ho provato per i miei figli quando erano ancora nel ventre della madre, l’unico criterio credo sia quello della possibilità di vita autonoma. Un feto sarà anche una persona in potenza, ma entro un certo numero di mesi non può vivere autonomamente. Non ha un corpo che glielo consenta. I suoi organi non sono pronti.
Credo che le donne costrette a subire un aborto terapeutico darebbero un braccio per salvare il proprio figlio, se fosse possibile farlo vivere decentemente.
Di più. Credo che nessuna donna abortirebbe, se le fosse possibile evitarlo. Ma questo gli anti-abortisti lo capiscono, o pensano che in fondo siano solo un branco di donne che vogliono ammazzare la “loro” progenie?
Quello che io invece non capisco, negli anti-abortisti che non sono non dico cattolici, ma neanche credenti, è la mancanza di acume (o devo pensare che sia malafede?).
L’incapacità per esempio di vedere quanto il comportamento della Chiesa, e di altre religioni, nel negare per motivi “filosofici” gli anticoncezionali, sia spesso corresponsabile dell’aborto. O della diffusione dell’Aids.
Perché, chi è per la “vita”, a meno che non abbia una concezione filosofica che non trovo offensivo definire arretrata, non chiede prima di tutto alla Chiesa di cambiare visione e dare una alternativa alle donne, responsabilizzare gli uomini?
L’interruzione volontaria di gravidanza è un male necessario.
Sarebbe meglio trovare un’alternativa prima, e magari dopo. Intendo dire che sarebbe meglio diffondere il più largamente possibile gli strumenti anticoncenzionali e soprattutto la consapevolezza che bisogna usarli, perché non è peccato, non fa male.
E sarebbe meglio far sapere alle donne – e agli uomini, anche – che possono anche affidare ad altri, che li ameranno, i bimbi che loro non potrebbero, o non vorrebbero, o non pensano di essere capaci di far crescere.
Tutto questo non significa negare la possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza. Che è una misura di riduzione del danno, niente altro che questo.
Mi sfugge dunque perché, questi uomini che sono per la “vita”, continuino a martellare così gravemente le nostre coscienze, e non interroghino invece prima le proprie su quello che loro davvero possono fare.