Altissimo, magro, quasi ricurvo, vestito in nero e beige, con ai piedi un paio di sneakers nere e con uno zainetto da adolescente a tracolla, William Gibson ha 60 anni. Ha una faccia quasi da predicatore calvinista, e un sorrisetto beffardo. Capire il suo inglese parlato è un po’ meno, solo un meno arduo della sua scrittura.
Nel chiosto dell’ex oratorio che oggi ospita la Casa delle Letterature di Roma mastica affabile una gomma americana mentre si sottopone a una sessione fotografica davanti a numerosi fotografi.
Al termine della conferenza stampa che ha tenuto con il compatriota Joe R. Lansdale – che è texano e parla come un texano – mi sono avvicinato, e gli ho mormorato: “Even if I feel like a teenager fan, may I ask you to autograph the book?”, e gli ho porto la copia di “Spook Country” che ho trovato l’anno scorso in una libreria britannica a Parigi (in Italia “Guerreros” è uscito la scorsa settimana).
“Sure”, mi ha risposto, lasciandomi questo:
(erano quasi 30 anni che non chiedevo un autografo, temo)