A quelli che scrivono sui sacchetti di plastica o similia “Aiuta la natura, non gettarmi”, bisognerebbe spiegare che la famosa “natura” è un nome collettivo, in realtà.
Come, che so, la “società”.
Quelli che di solito dicono che “è colpa della società” (esistono, esistono ancora, sono pure tanti) intendono, in fondo, che la responsabilità è, comunque, di qualcun altro, mica loro.
Nel caso della “natura”, però, l’assunzione di irresponsabilità (è la natura, mica sono io) somiglia molto alla propensione al suicidio, perché della natura, appunto siamo parte anche noi. Parte minimale, talvolta (e qui non mi dilungherò, per mancanza di titoli filosofici, sul sentimento di finitiudine e di piccolezza che ci coglie talvolta davanti allo ‘spettacolo’ della natura).
“La natura’ c’era molto prima che tu acquistassi il prodotto che porti in questo sacchetto, cara cliente – bisognerebbe scrivere su quegli shopper – e ci sarà anche dopo che tu sarai diventato polvere. La Terra ha davanti a sé miliardi di anni, prima che il Sole si spenga. E a miliardi di anni dietro di sé. Pensa alla fine che fecero i dinosauri. Pensa al tramonto degli imperi e delle civiltà. E allora non buttare questa busta, dato che ormai l’hai presa, continua a usarla e se devi gettarla fallo nel posto giusto. E la prossima volta, porta con te un sacco, invece. Pensa che tutto quello che getti in un modo o nell’altro ti tornerà addosso…”.
Oppure, più semplicemente, si potrebbe scrivere: “aiutati che Dio, o chi per lui, ti aiuta”.