Domenica 17 aprile si vota per il cosiddetto referendum sulle trivelle. La data è stata fissata dal governo, che ha rifiutato di riunirlo con le elezioni comunali (che dovrebbero tenersi tra fine maggio e inizio giugno). Secondo chi chiedeva l’election day, raggruppando le due votazioni, si sarebbero risparmiati almeno 200 milioni di euro.
Il referendum è stato proposto da una serie di Regioni (in grandissima parte governate dal Pd o dal centrosinistra) e ha l’appoggio delle associazioni ambientaliste. Il quesito referendario è uno solo (gli altri, in gran parte, sono stati bocciati perché nel frattempo è cambiata la legislazione: le regioni avevano poi annunciato un ricorso alla Consulta per il conflitto di attribuzione di poteri, ma alla fine non hanno votato il provvedimento necessario a farlo).
Il quesito che troveremo sulla scheda recita: ““Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 ‘Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)‘, limitatamente alle seguenti parole: ‘per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale‘?”.
Chi vuole l’abolizione vota sì.
Ma che significa il referendum e che implicazioni avrebbe la vittoria?
Intanto, la questione riguarda soltanto le piattaforme in mare che oggi sono all’interno delle 12 miglia nautiche dalla costa (“I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”, dice il comma 239 della legge 208/2015).
Secondo questa scheda del Ministero dello Sviluppo Economico le piattaforme sono in tutto 92. Ma 8 non sono operative, 5 sono di supporto alla produzione, numerose altre non sono eroganti.
Si tratta in totale di 21 concessioni: 7 in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata e in Emilia-Romagna, una in Veneto e nelle Marche. Che nel 2015 hanno rappresentato circa il 9% della produzione di gas nazionale (pari nel 2014 a poco più dell’1% dei consumi nazionali) e la stessa percentuale per il petrolio (0,8% consumi 2014). I dati complessivi sulla produzione sono qui.
Nel caso il referendum superasse il quorum e il sì vincesse, le piattaforme non sarebbero chiuse immediatamente, ma alla fine dei periodi di concessione o proroga già autorizzati (o già richiesti).
Tutto questo serve a chiarire che l’impatto effettivo del referendum è limitato (evitiamo di fare demagogia e di diffondere informazioni false)
Perché allora il referendum va sostenuto?
Prima di tutto per un principio di precauzione, perché i rischi di inquinamento delle acque e delle coste sono comunque potenzialmente alti. Perché la produzione di energia legata a questi impianti è poco rilevante nell’ambito dei consumi nazionali. Perché i vantaggi della comunità sono scarsi, mentre i profitti delle aziende energetiche sono consistenti.
Quindi, in sostanza, il gioco non vale la candela.
Obiezione: ma così aumenta il trasporto di gas e petrolio verso l’Italia! Be’, Il gas viaggia praticamente tutto o quasi nei tubi, non nelle navi. Il consumo petrolifero è in calo. E comunque va ricordato che le concessioni su terraferma non vengono toccate dal referendum (né quelle oltre le 12 miglia dalla costa).
E qui veniamo alla questione politica, cioè del modello di sviluppo e di energia che vogliamo.
Se vogliamo provare almeno a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici (provocati dalle attività umane, secondo la ricerca scientifica), dobbiamo ridurre le emissioni a effetto serra e aumentare la produzione di energia rinnovabile (oltre a migliorare l’efficienza energetica, che è un pezzo super-importante del discorso)
Nel 2015 i consumi di energia in Italia (dice il Gestore dei Servizi Energetici) sono stati coperti per il 32,8% dalle rinnovabili (energia idraulica, eolica, solare, geotermica e bionergenie). E’ tanto, ma è ancora poco. L’Italia non è un grande produttore di combustibili fossili, quindi importa. Ma è un paese ricco anche di risorse naturali e condizioni per la produzione di energia rinovabile.
Quindi: se ci preoccupiamo dei cambiamenti climatici (e dell’inquinamento), dobbiamo fare qualcosa. Ovvio che non bastano i referendum. Ci vuole una diversa direzione politica. Dunque, questo voto è almeno un segnale (e una richiesta di coerenza a un governo che dice di impegnarsi nella lotta al riscaldamento globale).
(foto rielaborata di una piattaforma al largo di Cesenatico. L’autore è Daniele Prati, l’immagine è common creative)
conoscevo i termini del quesito referendario e le implicazioni, ma tu li hai riassunti e spiegati ottimamente. un sacco di gente non sa nulla e probabilmente non si raggiungerà il quorum. ben venga ogni iniziativa per portare la gente al voto,