C’è qualcosa di stupido e perverso nella frase che alcuni hanno assunto a feticcio e ripropongono ogni volta che un atto di terrorismo di massa o guerra finisce sui media: mi riferisco a quel “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni che è risuonato puntualmente in questi giorni.
Perché “restiamo umani” significa, semplicemente, che chi ammazza, tortura, mette bombe, si fa esplodere, pianifica attentati, non sarebbe umano, ma un animale. Anzi, una belva. Ma, con tutto il rispetto per la memoria e l’impegno di Arrigoni, non ė esattamente così.
Anche se nel racconto che amano fare di se stessi gli umani sono un’altra cosa, sono superiori agli altri animali, animali restano. E basterebbe Darwin per chiudere la discussione (o Bracardi, per buttarla in burletta). Ma non è solo questione di specismo. È un problema di comprensione politica.
Pensare che le persone capaci di fare del male anche a livelli di massa dormendo sonni più o meno tranquilli siano “inumane” significa sottovalutare la complessità (e anche le contraddizioni) degli esseri umani e delle varie culture che esprimono (e che li esprimono).
Si può fare del male agli altri pensando di fare comunque del bene a se stessi o ai propri simili. E non è per forza una caratteristica di regimi autoritari: i danni capaci di fare le democrazie agli “altri” sono nei libri di storia. E definire gli altri come “animali” ha sempre voluto dire ritenerli “inferiori”.
Ecco perché l’invocazione “restiamo umani” non serve a niente, o serve quanto un commento tipo “o cielo”. O peggio ancora, serve a inveterare l’idea che l’uomo sia per natura buono (da mangiare, avrebbe detto Moebius), e l’animale cattivo, o che qualcuno riesca a distinguere tra natura e cultura e menate del genere.
E la vicenda recentissima di Tay, l’intelligenza artificiale (non umana) creata da Microsoft che ha cominciato a postare tweet razzisti, mentre imparava da navigatori in rete, è un’altra dimostrazione di quanto poco significhi, restare umani.