Al supermercato vicino alla redazione dove spesso vado a comprare qualcosa per pranzo, un Doc (cioè una Coop mascherata) va in scena a intervalli, da alcuni mesi, una guerra tra veri poveri.
Noi siamo abituati a utiizzare la definizione guerra tra poveri in modo soltanto figurativo, spesso con ironia. Invece, l’anziana signora che di solito si siede su una cassetta di plastica per la frutta e il giovane africano che le si mette di fronte sono veri poveri, impegnati in un vero conflitto, in cui sembra in gioco anche la loro sopravvivenza.
Di loro due non so nulla. Delle loro vite, delle loro storie, intendo.
Regolarmente mi ingegno per dare soldi spicci a entrambi, in proporzioni variabili. La signora non chiede direttamente l’elemosina, sta lì e ti guarda con aria affranta, una volta ricevuto l’obolo piagnucola un lungo ringraziamento. Il giovane ti affronta col cappello in mano e ti chiama frate’ o signo’, è insistente quanto poi è ossequioso nei ringraziamenti.
Tra i due non corre buon sangue. L’anziana (l’ho sentita parlare un paio di volte con altri passanti) accusa il giovane di cercare di rubarle il posto e di averla minacciata. Ha anche chiamato un paio di volte la polizia.
Il giovane fa spallucce e resta inamovibile, ma sempre col sorriso (in questi ultimi mesi, vicino a casa mia, ho visto altri giovani africani presidiare tutto il giorno bar o supermercati chiedendo l’elemosina, sorridenti, sopportando stoicamente insulti e prese in giro).
Confesso che la mia simpatia va istintivamente al giovane , perché penso che ha un futuro davanti a sé, e poi non è lagnoso come la vecchia.
Poi penso anche che la donna si ritrova in questa condizione per colpe non sue, perché so per esperienza diretta (da testimone, quando facevo il servizio civile alla Caritas, una vita fa) che quando la sfiga colpisce e non hai una rete di appoggio, puoi facilmente finire per strada senza un soldo in breve tempo, quasi senza sapere neanche come.
E vedendoti, un sacco di gente penserà che in fondo, se ti è accaduto, è perché te lo sei meritato, perché non hai fatto quello che dovevi per tempo.
Vedendo il govane nero, la prima cosa che potresti pensare magari è: ma sei giovane, stai bene, non puoi andare a lavorare? Perché stai qui a chiedere l’elemosina? O, anche: che ci sei venuto a fare qui, se è per chiedere soldi in mezzo alla strada?
Poi ti coglie il pensiero che uno che chiede soldi deve essere messo maluccio, e che se è disposto a sopportare tutto questo, vuol dire che dove viveva prima era molto peggio di qui. E che la speranza invece gli dà la forza di continuare. E poi, lavorare in Italia? Come? Dove? E sei poi lavorasse, in quanti sarebbero pronti a dire che ruba il lavoro a un italiano?
Possiamo discutere dei massimi sistemi – e io stesso lo faccio di frequente – e pensare alle responsabilità di chi o di cosa ha costretto questo ragazzo ad arrivare qui dall’Africa e poi davanti a questo supermercato, al perché una donna anziana sia costretta a mendicare. Però dobbiamo anche provare a dare sollievo a queste persone, facendo peacekeeping anche col portamonete, aiutando entrambi i contendenti.
Peraltro, non è vero che la sofferenza unisca. La sofferenza unisce se provi empatia e sei pronto, a un certo punto, ad accettare il fatto che quell’altro non è un tuo nemico o concorrente, a capire che entrambi provate sofferenza perché entrambi siete persone in difficoltà, e che non è che tu sia più titolato o lui meno.
Ma non puoi costringere qualcuno ad accettare di considerare un altro come te, vicino a te. E questo, temo che sia il più grande limite dell’intervento caritatevole. Passare attraverso la sofferenza non serve necessariamente a cambiare la visione del mondo e a riscoprirsi solidali. Anzi. Nel caso che racconto, ci sono due persone bisognose in concorrenza.
Poi c’è la caritas (“benevolenza, affetto, sostantivo di carus, cioè caro, amato, su imitazione del greco chàris, cioè grazia”: cito Wikipedia) , che in questi giorni post-terremoto è il famose grande cuore degli italiani. Lodevolissima qualità, quella di averlo, questo cuore grande, che però di per sé non risolve le cause di eventi ciclici (un terremoto non è uguale alle migrazioni né alla povertà, ma in tutti i casi si può fare qualcosa per impedire conseguenza distastrose).
Certo, risolvere le cause di una guerra tra i poveri può sembrare un’utopia. Ma non è in fondo questo lottare per gli ideali, conquistare pezzetti di realtà (che ovviamente saranno sempre meno belli dell’ideale, ma questo è un altro discorso)?
Tutto cioè per dire che se si pratica solo la caritas, o ci si interessa solo agli ideali (i massimi sistemi, in fondo), è difficile combinare qualcosa, cambiare qualcosa. Bisogna essere teneri, ma senza perdere mai la durezza.
Ps: con questo post credo di chiudere il ciclo con quel che scrissi tre anni fa
penso che per stare veramente dalla parte degli emarginati (per chi sente questo afflato), sfigati, chiamali come vuoi, si debba condividere un po’ della loro sofferenza. come? Al di là degli impegnati o attivisti, per le persone comuni vi sono diversi modi: dare una mano ogni tanto, fare la carità ogni volta che si può, renderli parte dei ragionamenti intorno al senso della vita. poi serve ragionare sui massimi sistemi e anche su quelli più piccolini, ovvero farsi un’idea di welfare e sostenere i modelli che ci appaiono più convincenti. ma tutto parte da una condivisione della sofferenza