La fine del mondo è sempre una bella lettura

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Noi lettori di fantascienza abbiamo spesso l’impressione, soprattutto oggi, di faticare a trovare opere di genere, perché il numero di case editrici specializzate è calato e sugli scaffali delle librerie abbondano piuttosto fantasy, vampiri e horror (no, non è tutta la stessa roba…). E dunque gioiamo quando ci imbattiamo in un’opera che ha vinto un premio ambito (l’Arthur Clark Award, in questo caso), rinverdendo gli antichi fasti del nostro genere preferito.

Però, occorre che vi confessi un paio di cose: non c’è mai stata tanta fantascienza in giro, come adesso, grazie alla rete (certo, se si legge solo in italiano però la scelta è nettamente più limitata); il libro di cui sto per parlarvi per qualcuno non è propriamente un’opera di fantascienza. Ma è davvero molto bello, ed è stato pubblicato in italiano.

“Stazione Undici”, della canadese Emily St. John Mandel, è uscito originariamente nel 2014. In Italia è arrivato a inizio 2016. Racconta un mondo prossimo (anzi, attuale) in cui una febbre di origine suina ha provocato la tanto temuta pandemia, sterminando gran parte degli umani contagiati.
Fino a qui, nulla di nuovo. Basta citare “I Sopravvissuti”, divenuto famoso anche per versione tv. O “L’araldo dello sterminio”, che parla comunque di un tema simile.
Ma nel libro di St. John Mandell non conta solo la trama. Pesa il modo di raccontarla, i diversi punti di vista, l’intreccio tra i personaggi, i flash-back, il rimando a Shakespeare (cerco di non fare alcun spoiler).E conta moltissimo, secondo me, l’espressione dei sentimenti e di una certa tenerezza in particolare (senza perdere la durezza, a partire da quella del contesto) o forse di vera e propria, pur piacevole, melanconia. Qualcosa a cui forse noi lettori fantascienza, appunto, siamo meno avvezzi.

Il libro, l’ho trovato sugli scaffali di una Feltrinelli, poche copie giunte da poco, e per questo pensavo che fosse una novità. Stavo per dire che l’ho trovato per caso, ma  non è del tutto vero.  C’erano dei motivi, per questo incontro. Mi capita di riflettere spesso su catastrofi ed estinzioni, in questa fase, come possibile conseguenza di una maggiore complessità dell’organizzazione e dello sviluppo umano.

In altre parole, nel momento in cui costruiamo un mondo più collegato e connesso aumentiamo al tempo stesso le dimensioni e la natura stessa della minaccia.
Più siamo, più viviamo gli uni accanto agli altri, più viaggiamo, più aumenta il rischio di una pandemia, per esempio.
Di qui, anche una riflessione non solo sulla nostra potenziale fragilità ( o, al contrario, resilienza?), ma anche sulla complessità del sistema in cui viviamo, e che tendiamo a ignorare, trascurando il fatto che la nostra civiltà è il risultato del lavoro, del contributo, anche d’idee, quasi sempre autonomo, di milioni e milioni di persone.

 

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