Il mestiere rispettabile del lobbista

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Molto probabilmente non avrei letto Il mestiere del potere , se non conoscessi Alberto Cattaneo. Ma è pur vero che ho scoperto che mestiere fa soltanto leggendo il suo libro.

Ho conosciuto Alberto per telefono, nel 2012, durante la vicenda del sequestro dell’Ilva di Taranto da parte della procura locale, in un’inchiesta per disastro ambientale che poi ha prodotto una notevole serie di conseguenze economiche, sindacali, politiche, legislative, giuridiche, etc. A quell’epoca, Alberto lavorava come consulente per i Riva, proprietari del 90% di Ilva.
Credo di averlo incontrato di persona, fuggevolmente, un paio di volte, ormai qualche anno fa.
Che mestiere fa, Alberto? Non il pr di alto livello, come credevo (spero non si offenda…), ma il lobbista. O meglio, si occupa di political intelligence, lobbying e public affair.
Già il fatto che non l’abbia capito spiega (oltre al fatto che non sia così sveglio, io) probabilmente come quelli su lobbying e lobbisti siano luoghi comuni.
Per esempio, la mia compagna non chiama lobbying una parte della sua attività, ma advocacy. In realtà non è molto diverso: lei vuol dire che rappresenta interessi collettivi, buoni. Ed è vero. Ma sostanzialmente è lo stesso lavoro. Perché i lobbisti non sono necessariamente cattivi. Rappresentano interessi che possono piacere o meno, e lo fanno cercando di influenzare il processo di formazione delle leggi (e quando lo fanno con strumenti illeciti non sono lobbisti, sono delinquenti).

“Il mestiere del potere” non è un manuale che spiega come fare attività di lobbying. E in realtà non racconta neanche tantissimi episodi sfiziosi, a dispetto del sottotitolo “Dal taccuino di un lobbista” (quelli che i giornalisti chiamano colore). Ma è invece una riflessione (e un’analisi lucida, realistica) sulla democrazia rappresentativa, sul processo di formazione delle leggi in Italia, sulla stessa figura del politico (a cui Alberto restituisce umanità, nel senso anche di limitatezza della condizione umana), soprattutto nelle pagine finali.

Direi, ma questa è una riflessione mia, che il contributo di Alberto mostra meglio quello che è peraltro il “regime” in cui viviamo, che non è propriamente una democrazia, ma, come diceva Robert A. Dahl una poliarchia , cioè un contesto in cui esistono diversi poteri in rapporto anche conflittuale tra loro. In cui le lobby non rappresentano una degenerazione, come pensano in molti, ma una parte in gioco.
(incidentalmente Dahl, di cui Alberto non parla, mi pare ampiamente sparito dal dibattito politico culturale italiano dopo essere comparso brevemente a fine Ottanta-inizio Novanta, nella trasformazione-fine del Pci).

Ma è possibile regolamentare l’attività di lobbying? Alberto sostiene che di fatto no, non si può, citando elementi interessanti (leggetevi il libro o ascoltate l’autore, se vi capita). Francamente non lo so. E non sono sicuro che sia così importante come, per esempio, evitare la prassi degli emendamenti in zona Cesarini (ma si potrebbe?), il ricorso massiccio ai decreti (altro elemento che complica poi il passaggio parlamentare) e la stessa abbondanza di leggi. Cose che spiega bene l’autore, peraltro.

 

 

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