Da tempo volevo scrivere qualcosa su Proletkult, il nuovo libro del collettivo Wu Ming, ma a darmi la spinta, confesso, è stata la prima puntata di una serie su Trotsky (o Trockij o Trotskij) che ho visto ieri sera, su suggerimento di un amico. E comincio da qui.
È piuttosto curiosa, questa serie. Non bella, ma curiosa sì. Prima di tutto perché Trotsky è stato letteralmente rimosso dalla storia russa per decenni. La fine dello stalinismo non ha mai portato a una sua riabilitazione. Solo nel 1990 Dmitri Volkogonov ha raccontato la storia dell’antagonista di Stalin in un’intervista alle Izvestija, all’epoca ancora quotidiano del governo sovietico. Qualche anno dopo, Volkogonov avrebbe pubblicato la biografia di Trotsky (“l’eterno rivoluzionario”).
Il fatto che nel 2017 il Canale Uno della tv russa (che è controllato dallo Stato) abbia dedicato a Trotsky una serie – che ora si può vedere su Netflix – può indicare certamente una “apertura” politica e culturale che in altri tempi sarebbe stata impossibile, e che magari qualcuno ritiene inconciliabile col regime di Putin. Ma secondo me la scelta di farne un personaggio tv è ascrivibile anche ad altro, e cioè alla costruzione di un pantheon della Russia attuale, questo strano impasto di nazionalismo imperial-statalista, in cui anche Trotsky bene o male ha la sua parte.
Poco importa che Stalin lo abbia sconfitto nella lotta per il potere e poi fatto uccidere, dichiarando guerra anche ai suoi seguaci. C’era anche Trotsky, nel periodo eroico della costruzione dell’Urss, dunque va annoverato anche lui tra i padri della patria. Qui siano oltre la riabilitazione, siamo al revisionismo ad uso imperiale.
La serie, dicevo, non è bella. Aldilà degli errori storici di cui parlano alcuni critici (una serie non è un libro di storia, ma può fare molti più danni, perché è quella la storia che resterà in testa alle persone…), è un kolossal pacchiano e ridondante, perfino nella scelta dell’ingombrante colonna sonora. Trostsky è raffigurato talvolta come una macchietta, altre come una grande figura tragica pervasa in certi momenti da una sessualità selvaggia (la scena iniziale del treno dice tutto) in altri da una forte ragione di Stato, o di partito.
Torno allora a Proletkult. Che non parla di Trotsky ma di Bogdanov, un’altra figura sparita presto (morì nel 1928) dal panorama dell’Urss, poco nota ai più, che fu importante prima della Rivoluzione d’Ottobre, molto meno dopo, quando diventò una sorta di pacifico dissidente, preferendo dedicare il suo ingegno allo sviluppo della medicina e non più a coltivare quella società comunista che aveva immaginato, e che lo aveva deluso.
Bogdanov scrisse almeno due romanzi che vengono classificati come fantascienza (mentre curiosamente quello dei Wu Ming non sembra essere considerato tale – o almeno in parte – dagli attuali cultori dell sf). Non li ho letti, ma a giudicare dai contenuti, si tratta di una fantascienza molto politica, utopica. Più alla Tommaso Campanella (La Città del Sole) che alla Ursula Le Guin (I reietti dell’altro pianeta).
Proletkult racconta dell’incontro tra Bogdanov e un personaggio uscito – o che sembrerebbe uscito – da Stella Rossa, il suo romanzo più celebre: una ragazza che viene a gettare l’allarme su quel pianeta utopico che il filosofo-scrittore-militante aveva immaginato, e che ora sta morendo (e qui invece forse il riferimento al romanzo di Le Guin e all’ambigua utopia c’è).
Ma Proletkult parla necessariamente anche della Mosca negli anni della lotta di potere del dopo-Lenin, dell’intolleranza crescente, della sofferenza di chi aveva altre aspettative sulla rivoluzione. E, in una serie di flashback, del rapporto – difficile – con lo stesso Lenin e con gli altri dirigenti del partito in esilio (e Trotsky è anch’egli liquidato come un altro assetato di potere, pronto a rovesciare le alleanze).
Perché parlo di revisionismo, qui? Lo faccio ironicamente, se volete. Immagino cioè quanto possa sembrare revisionista, per chi ha una certa formazione e idea sul movimento comunista internazionale, presentare un racconto così desolante non soltanto dell’Urss pochi anni dopo la rivoluzione – lo stalinismo non era ancora iniziato, era intuibile che Stalin avrebbe vinto, anche se il peggio sarebbe arrivato negli anni 30 – ma anche della stessa leadership di Lenin (uomo di ferro, non per caso). E, di passaggio, di Trotsky, da decenni messo sull’altare dai suoi.
Fare di Bogdanov il protagonista del libro equivale a farne l’eroe, succede sempre. E succede ancor di più, dicevo prima, quando il confine tra arte e storia e politica è labile. E dunque l’eroe Bogdanov è in qualche modo un “cacadubbi” (parola che appartiene anche alla tradizione comunista italiana), uno che rimette in discussione, che è amareggiato.
Vale la pena leggere Proletkult? Sì, ma con l’avvertenza, forse, che occorre avere un minimo di dimestichezza con tutto quello di cui ho parlato. Anche se i Wu Ming si sforzano molto di spiegare, nel corso dei capitoli, il background storico-politico degli eventi.