Sarà che Facebook ha molto da farsi perdonare, dopo aver fatto dell’uso della privacy altrui un modello di business, ma l’ultima trovata dell’azienda, che propone di trasformare il compleanno degli utenti in una festa di beneficenza, rischia di produrre più sensi di colpa che altro nei friend che avrebbero solo voluto fare gli auguri e che si sentono invece tirare per le tasche.
E anche se farà di sicuro la felicità di alcune onlus e ong, almeno le più grandi e internazionali, il sistema potrebbe avere sul terzo settore lo stesso effetto che ha oggi sulle testate di informazione – cioè i media più o meno tradizionali – rendendoli strettamente dipendenti da un potentissimo canale di distribuzione, a pagamento.
Da qualche tempo, quando si avvicina la data del compleanno, Facebook propone all’utente di creare “una raccolta fondi per sostenere una causa importante per te: ci occuperemo dell’elaborazione delle donazioni senza commissioni. Dopo la prima donazione, doneremo € 1. Scegli dalla nostra lista di organizzazioni no profit popolari o fai una ricerca per iniziare”, spiega il social media, aggiungendo che “si applicano restrizioni”, ma non si capisce bene quali. Segue una lunghissima lista di associazioni non profit da scegliere.
Se il festeggiando, che ha centinaia o magari qualche migliaia di contatti, decide di darsi alla beneficenza, i suoi amici di Facebook vedranno comparire un avviso, “raccolta fondi per il compleanno di”. Finora circa il 10% dei miei contatti (un centinaio di persone) ha organizzato una raccolta del genere.
Non so voi, ma da sostenitore annuale di almeno tre ong, ogni volta che vedo un avviso del genere provo imbarazzo. Perché credo che la beneficenza sia in ogni caso una buona azione, anche se non ritengo buone tutte le cause (non sto parlando della carità nei confronti delle singole persone, che andrebbe fatta sempre, perché è sempre un aiuto).
Ma ovviamente non posso, per ragioni di portafoglio e anche di interesse per le singole cause, partecipare a tutte le raccolte fondi dei miei conoscenti. E mi spiace anche che il festeggiato scambi la mia mancata partecipazione all’esborso collettivo per scarsa attenzione nei suoi confronti.
Certo, conoscendomi, è più probabile che io partecipi alla raccolta di una persona che conosco bene anche offline, non soltanto via web. E certo, potrei anche simbolicamente versare un euro (cioè quanto dà Mark Zuckerberg), ma per abitudine, preferisco lasciare una piccola somma effettiva, diciamo 5 euro.
D’accordo. Probabilmente, si tratta di piccoli scrupoli e imbarazzi personali, di questioni di “bon ton” con un trascurabile impatto rispetto al peso che lo strumento della donazione via Facebook può avere per casse delle associazioni non profit.
Anche se quelle stesse ong poi sui social media, nell’ultimo anno e mezzo, sono state attaccate pesantemente dai fan di Lega e M5s per il loro sostegno ai migranti salpati dalla Libia, perdendo credito nell’opinione pubblica italiana, secondo un sondaggio Ipsos.
Oggi il non profit usa i social media per cercare di aumentare l’audience e anche il numero dei donatori. Tutto normale, visto che Facebook, da solo, raccoglie circa 2 miliardi di utenti attivi ogni mese.
Ma il punto è se il gioco vale la candela. Prima di tutto, bisognerebbe capire se spendere soldi su Facebook, perché anche di questo si tratta, produca un aumento significativo in termini di bilancio per le ong, oltre che di influenza.
In questi anni le associazioni hanno fatto la loro parte per aiutare Zuckerberg, portando su Facebook i propri sostenitori (gli iscritti, i simpatizzanti, quelli che comunque ricevevano newsletter, email, etc) e versando appunto denaro nelle sue casse, a quanto pare senza sconti sulle inserzioni.
In uno studio del 2014 sulle ong umanitarie e la comunicazione globale, gli autori sono arrivati alla conclusione che la maggior parte delle sigle manca delle risorse organizzative per riuscire a ottenere l’attenzione dei media tradizionali e insieme del grande pubblico, quello dei social, e che è improbabile che Internet risolva il problema della comunicazione globale.
L’accento è appunto sulla questione dell’attenzione, perché i messaggi delle associazioni rischiano di perdersi, di diventare irrilevanti nel vasto mare degli utenti, impegnati a far circolare foto di gatti, scene da “Paperissima” e fake news.
(questo post è stato pubblicato originariamente il 1 agosto 2019 su HuffPost)