Il 24 settembre la Corte Costituzionale terrà un’udienza importante sulla questione dell’eutanasia, o meglio sull’aiuto al suicidio, dopo aver atteso invano che il Parlamento si pronunciasse sulla questione.
È improbabile, per non dire impossibile, che in così poco tempo Camera e Senato prendano una decisione in merito, dopo la vicenda dell’aiuto fornito dal radicale Marco Cappato a dj Fabo per raggiungere la Svizzera e ottenere il suicidio assistito, nel febbraio 2017. I parlamentari potrebbero però iniziare a discuterne, almeno allo scopo di ottenere dai giudici costituzionali una proroga.
Nessuno sembra intenzionato a lasciare una decisione così delicata alla Consulta, tutti ricordano il ruolo della politica, ma finora sono stati pochissimi i politici intenzionati a prendere la questione sul serio. O la prendono così sul serio che hanno timore di pronunciarsi, perché il tema può essere divisivo. Eppure, riguarda ogni anno moltissime persone e le loro famiglie, i loro amici e conoscenti, i medici e il personale sanitario.
Si tratta principalmente di una questione di diritto. Perché se esiste un diritto alla vita, e alla qualità della vita, dovrebbe esistere anche un diritto alla morte.
Intendiamoci: i diritti non sono qualcosa di eterno, immutabile, scolpito nella pietra. I diritti nascono secondo il contesto, si conquistano, si concedono. I diritti si perdono, anche. Quando parliamo di “diritti naturali”, quelli che ogni persona avrebbe sin dalla nascita, ovviamente parliamo di un’astrazione, come se esistesse realmente una “natura stessa” umana a prescindere dal luogo e dal tempo. Si tratta invece di un dato storico: siamo noi, o meglio i nostri rappresentanti, a decidere che è così.
C’è una cosa almeno in cui tutti noi (e anche gli altri animali etc) siamo certamente uguali: non abbiamo deciso noi di nascere. Poi certamente possiamo decidere di cambiare nome, di ripudiare la nostra famiglia, di provare a cambiare contesto sociale, economico e politico, di lasciare il nostro Paese, ma non siamo stati noi a voler venire al mondo. Mi pare una ragione sufficiente per riconoscere che dovremmo almeno avere il diritto di decidere di morire, e come, e aiutati da chi.
Chi ritiene che la vita sia sacra perché ci è stata affidata da un’entità superiore, non deve essere affatto costretto a scegliere come e quando morire. Ma non può impedire ad altri di fare scelte diverse. Esattamente quello che succede, per fare un esempio, con i matrimoni tra persone dello stesso sesso: nessuno giustamente è costretto a farlo, nessuno dovrebbe impedire ad altri di fare una scelta del genere.
I diritti sono generalmente regolati, e dunque va regolato anche il diritto alla morte, anche per evitare abusi e tragici errori. Certamente serve che si possa dichiarare la propria intenzione di morire e in quali circostanze, consentendo che si possa anche cambiare idea in qualsiasi momento. Altrettanto certamente non si può rinunciare al diritto alla qualità della vita e delle cure. Un conto però è curare, altro conto è l’accanimento terapeutico, cioè mantenere qualcuno in vita, contro il suo stesso volere, anche se vita, come la intendiamo tutti oggi, non è.
(questo post è stato originariamente pubblicato il 16 settembre 2019 su HuffPost)