
Tanti anni fa, quando era ancora segretario della Cgil, Sergio Cofferati ironizzò, parlando con noi cronisti che lo incalzavamo a margine di un convegno, sui “giornalisti da sms”. Ce l’aveva con quei “nuovi” servizi che inviavano agli utenti – a pagamento – sms con notizie riassunte, condensate, ultra-sintetizzate. Secondo lui, quello non era (più) giornalismo. C’era un servizio analogo anche nell’agenzia di stampa dove lavoravo, e per un po’ rese abbastanza soldi, prima che i social dominassero la scena.
Mi arrabbiai con Cofferati, probabilmente perché le sue parole erano suonate come un insulto: giornalisti “da sms” contro giornalisti “tradizionali”. Ma ritenevo, e lo ritengo tuttora, che con un sms si possa dare una notizia. Magari non tutti i tipi di notizie ma, rispettando le regole del giornalismo (le famose “cinque w”), si può ragionevolmente pensare di informare. Ovviamente, però, il titolo non è tutto. E il titolo, come si sa, può essere parziale o addirittura ingannevole.
Pochi anni dopo, nel 2006, nasceva Twitter. Una specie di “smsificio” (data la lunghezza massima dei post) gratuito alla portata di tutti. Il social aveva fatto il colpo grosso quando un utente aveva twittato una foto dell’aereo ammarato miracolosamente sul fiume Hudson, nel 2009, diffondendolo prima dei media tradizionali. Era stato un segnale quasi sinistro, per la stampa.
Oggi Twitter – che nel frattempo, non a caso, ha raddoppiato il numero massimo dei caratteri che si possono usare per un tweet, da 140 a 280 – è usato massicciamente dai media, come canale di distribuzione in rete dei propri pezzi grazie ai link.
Ovviamente, l’uso vasto da parte dei media facilita anche la circolazione di fake news, errori, sviste, etc. Anche perché la maggior parte degli adulti, rilevava qualche tempo fa uno studio del Reuters Institute, non fa caso alla fonte da cui provengono le informazioni che riceve sui social. È un po’ il vecchio “l’ha detto la televisione”. Ma Twitter è usato anche dai singoli giornalisti, dai politici, dalle star, dai militanti, insomma da tante persone, e questo è il dramma.
Fare sintesi non è semplice. Non è una cosa che tutti sappiamo fare. E non sempre riesce, anche a chi lo sa fare per mestiere. Il risultato pratico è che la gran parte delle volte quello che twittiamo appartiene all’irrilevante o finisce per essere semplicemente uno slogan, uno sfogo, un insulto, un’incitazione, limitando le riflessioni e la complessità.
Certo, non c’è bisogno sempre di scrivere 10.000 parole per rendere in modo efficace un argomento. Ma c’è una differenza fondamentale tra un testo di 280 caratteri e uno di, diciamo, 2800. Per articolare un ragionamento occorre un po’ di tempo e quindi spazio, parole. La complessità si può spiegare, ma non in due battute. Magari evitando anche facili incomprensioni, come succede almeno una volta a settimana, quando un vip scrive una scemenza (per esempio quando non è riuscito a sintetizzare il suo pensiero) e si scatena un casino, tra interpretazioni, contro-interpretazioni, correzioni, provocazioni. Ci cascano tutti.
Twitter, com’è, va benissimo per fare battute. E in effetti apprezzo molto l’uso che ne fanno alcuni autori dalla vena comica. Va bene per fare pubblicità, proprio perché è il canale giusto per i claim (e dunque per la propaganda, anche se Jack Dorsey, il chairman di Twitter, ha escluso la possibilità di usarlo per spot politici a pagamento). Va bene anche come interfaccia per i servizi pubblici, per dare informazioni rapide e puntuali.
Ma non va bene per raccontare, spiegare, a meno di non usare i thread (cioè catene spesso lunghe di tweet) o i video, spesso sottolineati, rimettendo però così in discussione la stessa struttura di Twitter. Che doveva superare i blog.
Un’enorme quantità di persone, però (spesso anch’io), finisce per usarla per sputare sentenze. E così facendo, Twitter ci rende tifosi, supporter, partigiani. Ci fa arrabbiare. Ci fa deprimere (io mi deprimo, ormai, la mattina, quando scorro la mia timeline generale). Ci fa esprimere giudizi avventati sul resto dell’umanità (gli altri), non al bar, ma davanti a centinaia o spesso migliaia di persone. Ci induce a diventare ossessivi, almeno in rete. Per me assomiglia spesso, ormai, alle temute chat di Whatsapp. Dove le persone sembrano ignorare di essere in luoghi pubblici.
La colpa, ovviamente, non è di Twitter (in misura diversa il discorso vale per Facebook, che però è un’altra cosa, perché ti consente meno di polemizzare con gente che non conosci, e ha un uso più direttamente ricreativo: se usate entrambi i social, capite certamente cosa intendo).
Twitter, che funziona benissimo per tante cose, è solo un amplificatore. Potrebbe amplificare anche le nostre qualità, chissà, ma intanto spesso esalta i nostri lati peggiori.
Ovviamente non è mia intenzione proporre di oscurare Twitter, cioè quello che fanno i regimi quando sono in difficoltà e non vogliono che le persone siano informate (o si mobilitino). Ma credo anche che servano a poco i decaloghi sulla “comunicazione non ostile” che ho visto circolare su vari social. Perché in teoria possiamo concordare in tanti, per poi però riprendere subito dopo a insultarci o a eccitarci collettivamente.
L’unica soluzione che sono in grado di proporre, al momento, è personale: staccare la spina, almeno ogni tanto, per evitare di rovinarsi la giornata.