
Il lockdown deciso dal governo in seguito all’epidemia ha portato anche alla chiusura di fatto del comparto che si definisce Horeca (hotel, ristorazione, bar) e rischia di segnare una svolta drammatica in particolare per i ristoranti italiani. In cinque anni, dalla fine del 2014 alla fine del 2019, il numero di esercizi di “ristorazione con somministrazione” è cresciuto del 19%, secondo i dati UnionCamere (a Roma, città turistica per eccellenza, l’aumento è stato di quasi il 23%). Una crescita che è andata di pari passo con l’aumento dell’interesse per la cucina e i ristoranti in tv, col successo dei format culinari.
Il comparto, stando alle cifre fornite l’anno scorso dalla Camera di Commercio di Milano, impiegava 1,4 milioni di persone. Sempre nel 2019, secondo un rapporto Fipe (Federazione dei Pubblici Esercizi), gli italiani hanno speso per mangiare fuori, al ristorante ma anche al bar, 36 miliardi di euro.
Il cibo, anche quello cucinato da altri, è uno di quei beni di cui non si può fare a meno. E dunque grazie anche alla liberalizzazione delle licenze e all’aumento del turismo – solo per i primi 10 mesi del 2019 l’Enit ha stimato una spesa dei turisti stranieri in Italia di 40 miliardi di euro – in molti si sono lanciati nella ristorazione, sicuri di guadagnare.
Ma la mortalità delle imprese è piuttosto elevata, mentre la produttività resta bassa. Sempre secondo la Fipe, il valore aggiunto per unità di lavoro – diminuito del 9% tra il 2008 e il 2018 – è di 38.700 euro,cioè il 41% più basso rispetto al dato complessivo dell’intera economia italiana. Nel 2018 il tasso di mortalità delle imprese della ristorazione è calato al 7,4 rispetto al 7,7 di un anno prima, ma è diminuito anche il tasso di natalità: dal 4,7 al 4.