Il referendum come mezzo di contestazione permanente

(questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Domani, nella sola versione cartacea, il 18 settembre)

Giuseppe Conte non sembra temere l’esito del referendum costituzionale del prossimo 20 e 21 settembre, e in ogni caso da tempo ha chiarito che anche una vittoria del No non metterebbe a rischio il suo governo. A differenza di Matteo Renzi, non si è mai intestato la riforma costituzionale del taglio dei parlamentari, trasformandolo in un banco di prova della propria leadership. Ma se le elezioni regionali dovessero andare male per la maggioranza giallorossa e il Sì non vincesse al referendum, il premier non potrebbe certo fare finta di nulla. E potrebbe accadere, perché negli ultimi anni i referendum, soprattutto quelli costituzionali ma anche quelli abrogativi, sono diventati una sorta di contestazione permanente.

Gli ultimi sondaggi prima del silenzio elettorale prevedevano una vittoria certa dei sostenitori del Sì (il 71 per cento per Ipsos, il 68-72 per cento per Swg) seppure con il fronte del No, intorno al 30 per cento, in recupero rispetto ai mesi scorsi.

Il referendum confermativo, a differenza di quello abrogativo, non prevede quorum. Significa che una minoranza forte e determinata può fare la differenza, soprattutto se l’affluenza alle urne è bassa.

L’election day, con l’accorpamento delle regionali e delle amministrative al referendum, e con le urne aperte per due giorni, dovrebbe comunque contribuire ad aumentare la partecipazione. Un fattore che potrebbe “aiutare” il governo a superare indenne la consultazione referendaria. Ma nel 2016 Renzi perse il referendum anche con un’affluenza di poco superiore al 65 per cento. 

L’ex rottamatore, che alle elezioni europee del 2014 aveva portato il Pd al 40 per cento, non capì che aveva contro un mix vincente di «gentismo» (come lo chiama Leonardo Bianchi, nel suo bel libro La gente: una particolare forma di populismo, individualista e animata dall’indignazione contro una non meglio definita Casta) e di rabbia sociale, di destra e sinistra, figlia anche della precarizzazione della società, aumentata a dismisura con la Grande Recessione. Il referendum, al di là dei suoi contenuti, venne così utilizzato per inviare un messaggio al premier, che aveva personalizzato il voto e che, evidentemente, aveva tradito le speranze di una parte dell’elettorato. Il Sì vinse, oltre che in Alto Adige, soltanto in un’area che comprendeva parte della Toscana, dell’Emilia, dell’Umbria e delle Marche. Cioè nelle aree dello zoccolo duro del centrosinistra.

Dieci anni prima, nel 2006, gli italiani avevano votato sulla riforma costituzionale presidenzialista voluta dal centrodestra e l’affluenza era stata del 52,5 per cento. Ma al momento del voto il paese era già governato dall’Ulivo e gli elettori berlusconiani erano stati meno propensi a recarsi alle urne. Il Sì aveva vinto solo in Lombardia e Veneto, dove il centrodestra è sempre stato fortissimo.

Nel 2001 il referendum sulla riforma costituzionale regionalista del centrosinistra era invece passato, ma proprio grazie alla mobilitazione di una minoranza combattiva e all’astensione dell’elettorato di centrodestra. La consultazione si era tenuta quando Silvio Berlusconi era tornato a Palazzo Chigi: l’affluenza era stata del 34 per cento e il Sì aveva raccolto il 64 per cento. Insomma, anche quello è stato un voto contro.

Un simile meccanismo di contestazione riguarda anche i referendum abrogativi, da più di 20 anni ostaggi dell’astensione di massa. Non votare infatti fa normalmente vincere il No, qualunque sia l’argomento. E anche quella è una sorta di protesta permanente contro la politica e le istituzioni, un malessere elettorale. L’unica tornata referendaria che negli ultimi anni ha passato indenne la prova del quorum è stata quella del 2011, in cui si votava per difendere l’acqua pubblica, contro il legittimo impedimento e sul ritorno del nucleare.

Se il referendum è stato pensato come correttivo alla democrazia rappresentativa e attuato come tale solo a partire dagli anni Settanta, è evidente che oggi si è trasformato in un’altra cosa: un voto – o anche un nonvoto, con la scelta dell’astensione – di contestazione. Probabilmente questa degenerazione è il frutto dell’eccesso di quesiti referendari su temi considerati poco rilevanti per l’opinione pubblica, o il fatto che successivi interventi parlamentari hanno spesso modificato l’esito dei referendum.

Sui referendum costituzionali, invece, pesa probabilmente l’essere figli di riforme non sufficientemente condivise. Da qui l’idea che siano più tentativi di imporre le proprie idee sugli avversari politici. E il rischio che vengano “dirottati” dagli elettori arrabbiati.

Paradossalmente oggi al governo c’è una forza politica che della contestazione ha fatto la sua cifra esistenziale: il M5s. In questi due anni di governo, prima gialloverde e poi giallorosso, i grillini hanno perso consensi, soprattutto a livello locale.  Ora puntano sul taglio dei parlamentari, argomento che piace trasversalmente agli elettori di centro, destra e sinistra, per recuperare qualche voto. Il rischio, però, è che il Movimento resti vittima della stessa contestazione che ha alimentato e di cui si è giovato negli anni.

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