
L’ultima uscita di Massimo Cacciari a “Piazza Pulita”, quella sui dipendenti pubblici o parastatali a cui “prima o dopo arriveranno… per forza, e io spero che ci arrivino presto, e con criteri egualitari”, è stata considerata come una minaccia ai lavoratori pubblici. Credo invece che quella di Cacciari fosse soprattutto la previsione – parziale e affrettata, coi toni eccessivi purtroppo tipici delle battute tv – di un possibile esito drammatico di una crisi, di cui la pandemia è una parte, anche se importante.
Additare i dipendenti pubblici come scansafatiche (e Cacciari non l’ha fatto) è una pratica politica di sicuro successo, anche in un Paese in cui i concorsi pubblici sono presi d’assalto, perché il posto è, tradizionalmente, garantito.
È stato così anche durante la crisi globale, quella iniziata nel 2007-2008: i lavoratori pubblici, in Italia, non sono stati toccati. Questo non vuol dire che non sia stata intaccata l’amministrazione pubblica, con i tagli di spesa o con i mancati aumenti di investimenti che sarebbero serviti in alcuni settori (come la sanità). E la precarizzazione dei rapporti di lavoro è arrivata anche dentro il servizio pubblico, sia con contratti “flessibili”, sia con l’impiego negli appalti del “privato sociale”, sia con la creazione di società pubblico-private utilizzate per erogare servizi pubblici.
Da figlio di ex autista di pullman di un’azienda pubblica (il laziale Cotral), faccio un esempio preciso, quello dell’azienda TPL di Roma, i cui dipendenti sono trattati in modo diverso e penalizzante rispetto ai colleghi dell’Atac, pur facendo lo stesso lavoro.