Recentemente, il quotidiano britannico “The Guardian” ha dedicato un articolo ai servizi di streaming musicali “alternativi”, cioè quelli che pagano di più i musicisti rispetto a Spotify, Deezer, Amazon o Apple, per citare i nomi più noti. Il titolo è significativo: “‘Spotify vende pubblicità, non musica’: come fare streaming etico”.
La questione non riguarda soltanto le app che consentono di ascoltare musica gratuitamente, ma anche quelle a pagamento. Il digitale, la Rete, ha liberato un enorme potenziale creativo e artistico, consentendo a chiunque di proporre la propria musica (ma anche i propri testi, le proprie immagini, etc) praticamente in tutto il mondo. E questo è bellissimo, ne converrete, ne converrà anche chi ritiene che Internet produca troppa Co2, contribuendo così al cambiamento climatico.
Chi vuole vivere con la propria musica, però, deve confrontarsi con il fatto che i servizi di streaming pagano pochissimo. Quanto? Secondo The Guardian, ogni volta che un brano viene ascoltato, il musicista percepisce circa 0,0004 sterline, cioè 0,00045 euro. Per guadagnare qualcosa, bisogna fare milioni di ascolti, insomma. Ma non tutti sono Bad Bunny o Tha Supreme, cioè i più ascoltati su Spotify nel 2020 rispettivamente nel mondo e in Italia.
Ovviamente, mentre dura la pandemia, chi vive con la musica (come anche con il teatro, etc) non può avvalersi della dimensione live, dei concerti, delle esibizioni. Quindi il problema dello streaming diventa ancora più impellente.