
Nei giorni scorsi qualche giornale ha ironizzato sul “premier di ferro” Mario Draghi messo in crisi dagli “stabilimentari”, come li chiamano a Roma – cioè i titolari degli stabilimenti balneari – che sono riusciti ancora una volta a ritardare l’entrata in vigore della cosiddetta direttiva europea Bolkestein sulla concorrenza. Si tratta di una categoria che da anni gode di un appoggio politico trasversale, dal Pd alla Lega passando per Forza Italia.
Poco dopo, però, è successo un fatto importante: il Consiglio di Stato ha stabilito che nel 2024 non potranno più essere prorogate le concessioni balneari e che il settore dovrà quindi essere aperto alle regole della concorrenza, con aste vere e proprie per assegnare l’uso dei terreni demaniali.
Al 2024 mancano oltre due anni, quindi c’è tempo per qualche nuovo episodio o colpo di scena, in una vicenda che va avanti dal 2006. Ma la questione delle spiagge, dal punto di vista dei bagnanti e anche della sostenibilità ambientale (e delle casse comunali), non riguarda tanto la Bolkestein e la concorrenza. Perché non è detto che le nuove regole, in questo caso, risolvano alcune questioni che si trascinano da decenni.
Prima di tutto, c’è l’eccesso di spiagge date in concessione. In nome della crescita economica, infatti, gli arenili pubblici, la cui cura è stata spesso via via abbandonata dai Comuni per tagliare i costi, in questi anni sono stati sempre più spesso affidati ai privati, e occupati da sdraio, ombrelloni e chioschi sempre più grandi. Secondo il dossier stilato da Legambiente, le concessioni sul demanio costiero sono oggi 61.426 contro le 52.619 del 2018. Sarebbe giusto invece invertire la tendenza e aumentare le spiagge completamente libere, senza alcun servizio.